9841 – Il racconto vincitore di Alessia Principe a “Storie di Sport”

Siamo felici di (ri)pubblicare, in una versione riveduta rispetto alla prima pubblicazione qui su Biblon, il racconto di Alessia Principe che ha vinto il primo premio al concorso “Storie di Sport”. Per la prima volta, in sei anni dalla nascita del concorso, a vincere è stata una scrittrice. Questo rende ancora più prezioso il premio della giornalista e scrittrice cosentina.

Facciamo i nostri complimenti ad Alessia Principe e la ringraziamo per la disponibilità che ci ha concesso a ripubblicare il suo racconto, rivisto, corretto e vincitore!

Dai diari mai scritti di Johann Trollmann (1907- 1944)

Fu pugile danzante.

A Wittenberg c’è una stazione. E in quella stazione passano dai cinque ai sette treni al giorno. La maggior parte sono treni merci. Quelli per i passeggeri transitano a mezzogiorno e la sera e sono sempre mezzi vuoti. A Wittenberg si sale ma non scende nessuno. 

Ho scelto per la fuga il convoglio che va a Sud, verso Lipsia e Dresda, e poi troverò come passare la frontiera e arrivare fino a Brno. Dicono ci sia un gruppo che nasconde i profughi, anche gli zingari come me. 

Ho detto che non scende nessuno a Wittenberg. Non è proprio vero. Una volta al mese arriva il carico dei deportati. Lo so perché quando arrivai da Neuengamme era di mercoledì e ascoltai distrattamente il sergente Kauffmann dire al colonnello che era il mercoledì del mese in cui arrivava il mangime per i topi. 

Il mangime eravamo noi. 

Ad Hainolz spalavo carbone. Ero zigeuner, zingaro. Perché tutti lo sapessero, la Z me l’avevano attaccata con un punto sulla giubba. André Mandryxcs, guidava un pugno di ribelli all’interno del campo. 

Ti devi alzare Rukeli, certi uomini come te, devono camminare su questa terra più a lungo possibile, anche a piedi nudi. Mi diceva così. 

E diventai Jona, un ragazzo ebreo morto di broncopolmonite. Pace a lui. Strapparono la matricola dalla stoffa del cadavere e l’appiccicarono al mio petto. 

Da oggi sei 9841, sei fortunato ragazzo, c’è ancora da fare per te. 

Fortunato, ripetevo. Come no.

Ti portano a Wittenberg, stipa il cibo e non andare al tappeto. Solo questo. 

A otto anni mi chiamarono Rukeli, alberello in sinti. Mi è sempre piaciuto, è un nome che esplode, prende la rincorsa e salta. È che avevo questa manta di capelli selvatici che mi scaldava la testa e dicevano che stavo dritto come un fuscello quando boxavo. Sarà stato per questo. A diciotto anni avevo macinato un centinaio di combattimenti. Ero il campione tedesco dei pesi medi regionali per il nordoccidente. Non male per un fuscello.

Avevo 26 anni. C’era questo birrificio, molto popolare, il Bockbierbrauerei, a pochi passi dal quartiere Bergmann. Era uno dei posti preferiti per gli incontri di boxe. Quella sera non c’era un angolo libero per il match. Puntavo al titolo dei mediomassimi. 

Signori, da un lato del ring, il campione tedesco, il favorito, l’orgoglio della grande Germania: con 77,9 chili di peso ecco a voi Adolf Witt!

Mani spellate, bocche aperte, pugni che percuotono i listoni di legno, volti che si girano verso il corridoio che conduce al quadrato bianco. Ce li ho tutti qui, in testa. Quanto mi divertivo a vederli scaldarsi tanto per quel tizio di poco più grosso di me. Nove giugno 1933, me lo ricordo come fosse ieri. Entra prima lui, non alza neanche la mano per salutare. È nervoso, parecchio. Ha sentito parlare di me, il pugile che danza. Lui è ariano, non può farsi battere da uno zingaro. Io l’ho fatto ricamare sui pantaloncini: Gipsy, perché è così che mi devono chiamare. 

Da dove sono io, lo vedo bene. Witt ha l’aria triste, una furia vaga accucciata in due rughe profonde segate sulla faccia. Fa un caldo d’inferno nero. Entro. Sorrido a tutti, saluto tutti. Dio mio, penso, è mio questo mondo che palpita. 

E ho vinto.

Gipsy-Gipsy-Gipsy urlavano tutti e Madaleine da sotto mi sfiorava i polpacci. Georg Radamm, era lì con lo sguardo secco. Se ne stava a braccia larghe e tese per tagliare la gioia in due e raffreddarla. Gelarla. Era il presidente dell’associazione boxe tedesca. Un gerarca. Diceva che l’incontro era nullo.

La folla gli si è rivoltata contro, come certi marosi che scorticano gli scogli appuntiti. Ma s’è mai sentita una cosa così? Un pezzo grosso delle Ss fischiato da tutta quella gente che inneggiava un diamine di zingaro che tirava di boxe. Mi portarono in trionfo a braccia, piangevo. E quello sarebbe stato un buon momento per morire.

Radamm mi costrinse a ripetere l’incontro. Disse che un pugile non piange come una femminuccia. Mi ordinò di stare in mezzo al ring senza muovermi, senza schivare, senza guardia, potevo solo respirare e farmi ammazzare di botte. Mi infarinai il corpo e tinsi di giallo i capelli. Accanto a me c’era Olga, la mia casa, la gioia purissima. Diceva di lasciarli fare, di non combattere e perdere. Mi sono piantato in mezzo al quadrato con le braccia larghe. 

Colpisci Eder, colpiscimi visto che io non posso, vinci così se ti piace. 

Al tappeto ci sono finito ma non subito. Da quella seria mi hanno tolto ogni cosa: il titolo, la licenza, l’onore. 

Oggi è mercoledì, dicevo, a Wittenberg si gela. Ho avuto la bronchite e non sento più gli odori. Orino sangue, di notte me la faccio addosso. Da tre mesi ho deciso che non voglio morire qui dentro. Ho iniziato a mangiare di più. Se li faccio vincere quando vengono a chiamarmi per tirare a pugni, poi riesco a mettere sotto i denti anche un pezzo di carne. Allora perdo e perdo e perdo. L’ho imparata la lezione. Mangio e mi rimetto in forze. Vado al tappeto e bevo di più. 

Quando m’internarono a Neuengamme, un giorno mi riconobbe un soldato delle SS. Ogni sera mi costringeva a boxare mentre io volevo solo svenire su un letto di chiodi.

Tu incassi male, diceva il mio allenatore ai tempi della felicità. Portali a spasso, ragazzo, portali a spasso e poi colpiscili. Ho imparato a incassare Zirzow, ad andare giù. Devi saperlo. Ai tempi di Bockbierbrauerei non avevo ancora capito come funzionava la vita nostra. 

Mezzanotte e quattordici. Lo leggo dall’orologio della stazione. Sta arrivando il treno, lo sento nel tremore delle traversine di ferro. Me ne sto rannicchiato come un serpente, appiattito al muro. L’ultimo vagone sarà il mio. C’è un’apertura sul fondo, se si dovesse mettere male salterò giù. Meglio rompermi la testa che finire nel forno.

Il treno arriva e mi inonda col suo fiato di carbone. Scendono i controllori, i merciai, il capotreno. Devono recuperare il carico, prendere un caffè prima del viaggio che punta a Sud. Che bella parola Sud. Mi ricorda i piedi sporchi sul selciato, il caldo bianco di agosto. Sud è il cielo che non guardo da una vita. Da quando sollevavo Rita e le sorridevo dicendole: di chi sei tu? Di papà. 

Esco dal nascondiglio, mi attacco alla sbarra di metallo dell’ultimo scompartimento. C’è una breve scaletta di acciaio. La porta cede, si apre, non è serrata. 

«Tu, Trollmann!».

Eccomi, con un piede sul gradino di metallo, il braccio teso nel salire. Vedo la fessura scura dell’interno. Lì, mi sarei messo lì al fondo, tra i sacchi di juta, nell’odore del fieno. Anche quello sa di Sud. 

Il soldato è dietro di me. Ha la faccia ancora tumefatta. Alla fine il naso gliel’ho spaccato insieme alla mascella l’altra sera, m’ero stufato di perdere. Bene, penso, mangerai con dolore e a ogni boccone ti ricorderai di me, quello che te le ha suonate per bene. Quello che stai per ammazzare con un badile.

Cala il colpo, di taglio, e la mia testa si spacca al centro. Il sangue è un lago di alta montagna che non fa rumore. 

Di chi sei tu? Di papà. Di papà.

Colpisce ancora. Ha un’espressione confusa, stupita, ha il viso viola e nero e grigio cenere. È arrabbiato perché io sorrido. Lo sa che ha perso di nuovo. Ha perso e non ha mai visto un uomo morire contento. 

(c) 2022 Alessia Principe

Alessia Principe (foto dal web)

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.