Almarina, un titolo che evoca anima e mare, è l’ultimo romanzo di Valeria Parrella, edito da Einaudi nella collana Supercoralli. Anche in questo romanzo, come nei precedenti, troviamo traccia e il segno riconoscibile di uno sguardo attento, critico, mai fuggevole, senza che i personaggi – e quindi l’autrice – indugino in sentimentalismi.
Uno stile asciutto, a volte tagliente, che lima le parole in una scrittura senza fronzoli. Il carico di emozioni spetta al lettore portarlo, in base alla propria sensibilità o prospettiva.
È una questione di stile: Valeria Parrella siamo abituati a leggerla e ritrovarla proprio in queste scelte di elegante sottrazione. Le sue donne non mai troppo verbose, né lamentose o chiacchierone, sono donne essenziali.
In linea di massima è così, – ci spiega la Parrella, alla quale abbiamo rivolto alcune domande sul suo nuovo romanzo – ma questa volta ad Elisabetta Maiorano, protagonista del romanzo, ho lasciato molto spazio per le riflessioni personali, le considerazioni, quindi in realtà lei è una chiacchierona, ha un io narrante molto pesante rispetto alle altre figure essenziali e sottrattive del libro. Il mio personaggio preferito di questo libro è Aurora (docente di lettere presso l’Istituto penitenziario minorile di Nisida, luogo in cui è ambientata la storia n.d.r.) è lei che mi piace di più. Sì, ad ogni modo lo stile è sempre quello, parlo sempre di cose molto drammatiche, complicate, perciò devo svuotare di retorica quello che dico.
Nel libro troviamo l’intrecciarsi di due vite giunte entrambe – anche se in modo diverso – ad un bivio: il carcere è un rifugio per Elisabetta Maiorano, che fuori da lì e dal suo lavoro di insegnante di matematica, non ha più nessuno ad attenderla. Un marito sposato tardi e andato via troppo presto, un clima di solitudine aberrante la avvolge, spesso riempito con gin e Sambuca.
Almarina, invece, è una delle giovani detenute di Nisida, arrivata dalla Romania con un carico di violenze, orrori e ossa rotte.
Cosa hanno da offrirsi, da scambiarsi queste due donne?
Almarina è una ragazzina a cui è successo talmente tanto che non c’è più spazio per altro male, offre un’arrendevolezza, mentre Elisabetta costruisce tutto su Almarina, e ci riversa tutto dentro. Questo libro l’ho chiamato Almarina perché lei è la soluzione, e anche perché il futuro “comincia adesso” come dice Elisabetta già nel prologo, ed è lei che ha il futuro negli occhi.
È stato complicato costruire Almarina, per dire pochissimo di lei, per farla sfuggente dopo aver detto “la cosa” tremenda che poi il lettore non riesce più a dimenticare.
I suoi romanzi fermano tra le pagine un’immagine del mondo che ci ritroviamo a vivere; i suoi personaggi incarnano il difficile adattarsi a certe problematiche proprie di ora, adesso e qui: Almarina è anche un libro fortemente politico, è una denuncia al contorto (o distorto?) codice giuridico-legale delle adozioni, ad esempio.
Sì, in effetti questo è un romanzo civile. Molti miei libri lo sono, anche Tempo di imparare era così, anche Enciclopedia della donna in un certo senso era un libro politico. L’affabulazione fine a se stessa non mi piace nella lettura, dunque figuriamoci nella scrittura. Ma il tema di Almarina non è il carcere minorile, lo stupro, la tratta dei Balcani, la docenza, il bello dell’insegnamento, in realtà secondo me la traccia più importante di questo libro è la burocrazia, stiamo con Magrelli quando scrive “meno burocrazia, meno dolore”, questa corsa all’allegato, l’ostacolo, la cattiveria, la crudeltà della burocrazia, questo è il filo che corre lungo tutto il libro.
In che misura Valeria Parrella sta ai suoi personaggi e alle sue storie?
Di autobiografico non c’è niente. Io non ho mai fatto autobiografia e pochissimo autobiografismo e in nessun libro parlo di me. L’autobiografismo è la tendenza di mettere un filtro minimo tra l’io narrante, tra sé e la vicenda narrata, e poi raccontare la storia. In tutti i miei libri, invece, prendo il mio io narrante e ne faccio un uso politico. Non racconterei mai una cosa perché quella cosa ha valore in quanto successa a me o altro, ma semplicemente perché quella cosa possa raccontare gli archetipi, non racconterei mai una cosa se essa non riecheggiasse nel coro dell’Antigone. Non faccio autobiografismo. È vero che attingo a cose che conosco molto da vicino: la disabilità la conosco, la prematurità de Lo spazio bianco, la conosco. Per esempio, l’insegnamento non lo conosco. Nisida? Per quattro anni tre o al massimo quattro volte all’anno ho tenuto dei corsi di scrittura con i detenuti, nulla di più. Estraggo ciò che vedo e ne faccio storie, questo è ciò che faccio.
Nella figura del direttore del carcere minorile s’incarna il mondo adulto che non ci piace. A pag. 50 leggiamo: “perché non riesco a togliermi dalla testa che è più naturale partire marinaio su una nave o andar pulendo scale dei palazzi, piuttosto che vincere un concorso da direttore di carcere”
Il direttore del carcere è una delle mie figure preferite perché è stata una di quelle più complicate da scrivere; lo scrittore qui stava dalla parte di Almarina e Elisabetta, ma il direttore è proprio bello, perché il direttore è Creonte, è colui a cui non puoi dare alcuna colpa, ma poi, quanto è difficile averci a che fare. Inoltre ha quella giusta distanza che bisogna avere dalle cose, mentre Elisabetta e Almarina hanno più pathos, sono più tenere, loro sono come Gramsci, che non perde mai la tenerezza. Il direttore/Creonte, deve per forza dimenticarsi la tenerezza, incarna lo Stato, è un’antinomia antigonea.
Antonio Gramsci, a cui è dedicata l’epigrafe del libro, ci ha insegnato che il carcere può diventare un punto di osservazione per leggere meglio e più a fondo politicamente il mondo che corre là fuori. A lui è dedicata l’epigrafe del libro e anche alcuni riferimenti.
Per me Gramsci non è solo un padre politico, certo lo è, ma è anche un padre letterario. Gramsci è un po’ una mia fissazione, di lui ho letto tutto, amo molto anche le sue recensioni letterarie, le stroncature a Pirandello, ad esempio, che lo stesso Pirandello accettava di buon grado perché si rendeva conto che venivano da un intellettuale tout court, un incontro tra grandi.
Che cosa funziona veramente delle lettere dal carcere di Gramsci? Una cosa che ho scoperto insieme ai detenuti di Nisida: facendo un corso di scrittura creativa ci davamo dei compiti, un anno ci siamo dati dei generi, quest’anno è l’anno dei poeti, per esempio. Siamo in tanti gli scrittori che teniamo i corsi di scrittura a Nisida, Maurizio De Giovanni si occupa del giallo, Riccardo Brun della sceneggiatura, io decisi di scegliere l’epistolario, pensando che potesse essere semplice per i ragazzi lavorare sulle lettere perché vivono in carcere e quindi, per esempio, a differenza degli adolescenti che incontriamo per strada, loro non hanno il cellulare. Ma non è stato così. Le lettere che uscirono fuori, erano davvero brutte. Io faccio volontariato, ma l’unico modo in cui secondo me bisogna farlo, è quello di non bluffare mai, e quindi se vai da scrittore in un carcere a fare un corso di scrittura e i detenuti scrivono male, glielo devi dire, così come con altre categorie, fargli notare anche i fallimenti, bisogna essere veri con loro. Dunque avevo queste lettere scritte malissimo, così decisi di portargli le Lettere dal carcere di Gramsci, intanto perché erano le lettere di un detenuto, ma anche perché leggendole, ho scoperto che la maggior parte delle lettere, sono tutte al contrario, soprattutto quelle ai figli, li immagina alle prese con il trenino elettrico, ‘vede’ la madre affacciata alla finestra sull’aiuola di basilico. Lui, dal carcere, fa lo scrittore, guarda gli altri con gli occhi della mente e ci racconta le persone a cui sta scrivendo. I ragazzi del corso hanno scritto, in questo modo, tutte lettere immaginando il fuori e ne sono uscite lettere bellissime.
Sullo sfondo e tutto intorno Nisida, punto di osservazione da cui la protagonista riflette sulla sua vita fuori da là, una finestra sul proprio mondo solitario, disordinato e vagamente alcolico.
Da qualsiasi parte la si veda, Nisida è un’isola: lo è stricto sensu, e lo è per il carcere, venuto fuori dalla trasformazione dell’antico Lazzaretto; lo è se paragonata all’isola che le sta di fronte, Capri, tutto un altro mondo. Un contrasto forte, netto, che troviamo nelle pagine del libro, che diventa contrasto sociale, tra classi e tra status, e l’intero romanzo (forse solo troppo breve) è una questione di sguardi atti a cogliere queste differenze.
Alba Battista è giornalista pubblicista, insegna Lettere ai preadolescenti e legge libri. Ogni tanto ne scrive anche, in punta di matita e su taccuini intimi. Ha studiato a Napoli all’Orientale e ha conseguito un dottorato a Cosenza, dove vive.