“O se nell’occulto d’un sovrumano alfabeto l’Omega di tenebre in cui precipito fosse l’Alfa d’una eterna luce? Lo saprò fra un istante e nel medesimo istante non saprò più di saperlo. Quando, stretto fra le gambe il fucile, col piede sul cane e fra le labbra la canna, la fronte avvolta nella bianca bandiera, udrò come un grido di Dio il fragore dello sparo nel silenzio dell’universo”
(Gesualdo Bufalino, “Le menzogne della notte”)
Lettore, spero tu voglia scusarmi sin da ora se oggi non riuscirò a scrivere nel rispetto di tutti i crismi, etici e normativi, che si richiedono a un curatore di rubriche letterarie. Accogli con clemenza questa mia innocente aberrazione! Discinta e impudentemente partigiana sarà la mia mansione di “critico del venerdì” poiché, oggi, ti parlerò della mia dolce hantise narrativa, dello scrittore che fatalmente ha rapito il mio stupore e irretito le mie spicciole ambizioni da scribacchino, come farebbe un Dio, fascinoso e irresistibile, che appare sulla via di un Saulo fragile e ragazzino.
Dopo aver trattato, in questa sede, di autori come Tommaso Landolfi e Giorgio Manganelli, il pellegrinaggio approda, naturalmente e ineluttabilmente, nel tempio malinconico di Gesualdo Bufalino.
Nato a Comiso, in Sicilia, nel 1920, si è consegnato alla letteratura tardi, timidamente, dopo aver stipato in un cassetto, per quasi trent’anni, il suo romanzo d’esordio (Diceria dell’untore, 1981).
La sua storia letteraria è tanto particolare quanto deliziosamente archetipica. Ancora sconosciuto, Bufalino curò l’introduzione a un libro di vecchie fotografie (Comiso ieri). Quelle pagine arrivarono tra le mani di Elvira Sellerio, lungimirante fondatrice della casa editrice omonima, la quale, in combutta con l’amico Leonardo Sciascia, contattò Bufalino e lo spinse, quasi costrinse, a dare alle stampe il proprio manoscritto. Dice lo stesso autore in merito: “Parto da un punto fermo: che vi siano scritture morali che è un debito rendere pubbliche… Non è il mio caso, temo; e dunque perché esibirmi? In quello che scrivo sospetto sempre l’abbandono a un’operazione di bassa lussuria, una sorta di interminabile, falsificato pettegolezzo su di me, da destinare dunque a un uso strettamente privato. È una presunzione, lo ammetto: e forse messa avanti per non confessare una rara vigliaccheria; quella di patire la pubblicità come fosse un sentirsi nudi e umiliati come di fronte a una vestita commissione medica di leva”.
Da quel momento in poi, Bufalino si dislaga verso il più alto cielo della letteratura. Diceria viene insignito del Premio Campiello e nel 1988 vince il Premio Strega con Le menzogne della notte; poi le poesie (L’amaro miele, 1982), i volumi di memorie (Museo d’ombre, 1982), di aforismi (Il malpensante, 1987) e altri romanzi di carattere autobiografico: Argo il cieco (1992), Calende greche (1992) e Tommaso e il fotografo cieco (1996), prima di morire tragicamente nel 1996 in un incidente stradale sull’autostrada Vittoria-Comiso.
Per tentare di rendere appieno l’idea di cosa sia stato Bufalino e quanto la sua carriera artistica sia stata un voler cercare sempre strade diverse da quelle battute dalla gente, ecco cosa dice in un’intervista, al suo amico Sciascia: “Confesso che il primo capitolo (ndc, di Diceria dell’untore) che scrissi, fu come un gioco serio: e consisteva nel trovare intrecci plausibili fra 50 parole scelte in anticipo per timbro, colore carica espressiva”.
E così, le pagine di Bufalino risultano essere una canèa di invenzioni lemmatiche (vitamorte, sonnogrembo, agrodolciume, barbituricamente, empiaggine), di italianizzazioni del dialetto siculo (alletacuore, incignare, saltimpendola), di prestiti francofoni e anglofoni, di riesumazioni di termini desueti, di rimandi ad altre forme d’arte (il jazz, il cinema, l’opera lirica), di citazioni in greco e in latino, di omaggi ad altri autori e di endecasillabi inseriti nel bel mezzo di una pagina di prosa (“calvo uccello dalle ali spase”). Tutto questo, però, impastato in una prosa sempre puntuale, chiara, mai dispersiva e sempre fieramente in opposizione al “feroce babàu dello scriversi addosso”.
Bufalino s’incastona nella storia della letteratura italiana come fosse “un cristallo del tempo” (prendendo a prestito le parole di Manganelli): non ha predecessori e non può avere epigoni dignitosi. Si può assimilare ai già citati Landolfi e Manganelli, al conterraneo Vincenzo Consolo e a Stefano D’Arrigo per mirabilità della parola usata e a Sciascia per tematiche, ma il suo esperimento, in fin dei conti, risulta un unicum strabiliante.
E chi ti scrive, caro lettore, sorpreso “in un soprassalto di ragione”, non può che far cessare qui il suo innamorato elogio e invitarti, col cuore in una mano e il cervello nell’altra, alla frequentazione di Gesualdo Bufalino.
Eppure, ti voglio bene, caro lettore! E, dopo averti consigliato la lettura di Opere, raccolta bufaliniana completa inserita nei Classici Bompiani, ti faccio dono di un brano estratto da Argo il cieco, ovvero i Sogni della Memoria, di cui lo stesso autore dice: “Scrive Leopardi in un luogo della sua ”Storia del genere umano”: ”E Giove seguitò dicendo: avranno tuttavia qualche mediocre conforto da quel fantasma che chiamano Amore.” Non diversamente il protagonista di queste pagine (lo stesso autore, forse; ma forse no, a dispetto della coincidenza onomastica), assediato dall’inverno in un albergo romano, rievoca, per medicina dei suoi accessi d’angoscia, antiche venture di cuore nel Sud, al tempo della gioventù. Ne risulta uno sdoppiarsi dell’io parlante in due città ed età diverse sotto due maschere alterne, in altalena perpetua fra abbandono e impostura, sfogo ingenuo e farnetico astuto.
Un diario-romanzo, insomma, che via via può leggersi come ballata delle dame del tempo che fu, o come Mea culpa di un vecchio che vanamente si ostina a promuovere in leggenda, attraverso ilarotragici ingranaggi di parole, la sua povera ‘vita nova’” (dalla quarta di copertina di Argo il cieco, Tascabili Bompiani, Milano, 2000).
A cura di Nazareno Loise
***
Lettore, estate, diciamoci addio. C’era una volta un ragazzo che credeva d’essere un vecchio, ora le parti si sono scambiate, il vecchio s’è finto ragazzo e per ingannare meglio se stesso ha velato con un panno tutti gli specchi di casa. Sono espedienti leciti, se non necessari. Io ho scritto a scopo geriatrico, dopotutto, la mia mozione d’affetti non era rivolta ad altri che a me. Ma vorrà dire qualcosa se quelle antiche giornate piovono ancora nella memoria una bionda polvere d’oro. Mi sembra certe volte d’invecchiare incatenato alla mia memoria, come invecchiano nelle caverne i draghi custodi accanto al tesoro. Senza che mai sopraggiunga da fuori un solo paladino a sfidarli. Poveri, rugosi draghi, dal corpo a scaglie come stipiti d’ulivo, incarcerati nel buio, in attesa che una durlindana gli luccichi innanzi e paghi la loro pazienza! Mentre gli anni passano e una ruggine verde cresce sulle borchie dei forzieri, e uno stillicidio dal tetto di roccia misura a lunghi intervalli il tempo e il silenzio.
[…]
Per qualche mese ha funzionato. In fondo era come se ripetessi a mio pro’ il famoso sotterfugio di Shéhérazade: raccontare per non morire. E per un po’ ha funzionato. Dormivo cinque ora di fila, un miracolo. E sognavo sogni gremiti di voli, a fiore di spume rosa dove nuotavo con lievi e lente bracciate. Donne, camminando sulle acque, mi venivano incontro sorridendo. Avevo amici, infine, e sudditi, e complici: una patria. Ogni personaggio che inventassi o copiassi dalla mia mente mi mandava sul volto un alito caldo, umido, come di parvola bestia che nasce; poi mi si sedeva al capezzale, mì consolava, lo consolavo. Ricominciai perfino a parlare da solo, ch’è la mia massima felicità.
[…]
M’ero organizzato con la pignola previdenza d’un turista, d’uno stratega, d’un seduttore, d’un assassino. Disegnando, prima di tutto, per le mie supposizioni, una città reale di nome e di sito, dove però dalle due decumane in croce vicoli ciechi si dipartissero, culi di sacco, passi perduti. Popolandola poi di presenze, un catasto ambulante: con foto segnaletiche di ciascuno, inventari di passato e presente, oroscopi, pròtesi dentarie, colore delle cravatte, vezzi comici del linguaggio…
[…]
Lo scopo era di scarcicare su me, controfigura e cascatore di me stesso, i debiti di me narrante e liberarmene giocando. E per un po’ ha funzionato. Un giorno che m’ero divertito, nel pensiero, te, voi, a travestirvi da plauditores m’addormentai col capo sul tavolo, non mi succedeva da quand’ero bambino. Oh sì, scrivere è stato un’innocenza e una tana, un trono dentro una tana, non mi dirò grazie abbastanza per aver avuto il coraggio di farlo.
Finché non s’infiltrarono talune figure bizzarre: come i nostri musi quando si schiacciano nell’anamorfosi di uno specchio. E parlavano per la mia bocca, ma dicevano le parole d’un altro: d’un nemico, d’un buffone nano, d’un menante stridulo, acido. Ne troverai le bave dappertutto, non ho nemmeno provato a lavarle.
Dietro di lui l’invasione. E se devo confessare tutto, non senza colpa da parte mia. Poiché io stesso, io che dico “io”, Ego scriptor, Ego scriba, Ego es, Ego ego, ho allevato dentro di me una turba dì traditori, che complottavano contro di me, che, appena mi giravo, già con la chiave in mano aprivano la porta al cavallo. Per dirla chiara, un mattino trovai nere a metà le pagine d’un capitolo nuovo (scritto quando? nel dormiveglia? e da chi se non da lui, da loro?) dove all’eroe s’adombrava un esito doloroso. Peggio: micidiale e volontario. Né mancava l’epitaffio nobile, desunto da una raccolta di Pietro Giordani…
L’alternativa fu, ovviamente, di bruciare il foglio e lo feci. Del resto sin da ragazzo m’aveva tentato l’idea d’un libro tutto bianco, da intitolare Omissis, firmato Enne Enne. E a chi mi burlava di presunzione e mallarmeismo, ribattevo che no, non vagheggiavo il Nulla ne varietur, l’Immacolata Concezione spiegata al popolo; no, era un modo, il mio, di lamentarmi senza suono, di alzare un dito in silenzio per dire che la vita mi doleva ma che non avevo la forza di prendermela con nessuno. Seppure non fosse una chiamata di soccorso, una resa non patteggiata… Come quando vediamo l’ambulanza a sirene spiegate e dal finestrino una mano chiede strada pietosamente; oppure da una trincea s’affaccia un fucile, e, legato alla canna, c’è il bianco d’un fazzoletto.
Bruciai quel foglio, dunque. Ma non gli altri, le precedenti cere Grévin della mia vetrina. Benché aspirassi da tanto alla cremazione senza residui, pulita come pulisce la morte; benché credessi che sia la morte, appunto, il ragioniere e revisore supremo, a cui spetta di mettere in pari le incontinenze del destino e gli sparigli delle sue giocate. Non c’è malleverie che valga la sua, per mettere pace fra me e te, lettore, fra noi due soli, gli unhappy few, i due soli me e te…
[…]
Ricapitoliamo. Una sessantina d’anni, una settantina di chili, la vecchiezza dietro la porta; biancheria che odora di creolina. Stasera, in più, di Eau de Rochas e di sperma. Nel portafoglio la carta di credito, la carta d’identità, 1a prenotazione 0034/B sul treno dell’Etna. A sinistra, sul materasso, un incavo ancora tiepido, è poco che se n’è andata. […] Mi osservo le mani: sul dorso di ciascuna due tre macchie brune, grandi quanto un cece, che l’altro giorno non c’erano. Dentro l’orecchio un fruscio di pioggia che non cessa mai, scalpiccìo di minuscole zampe, orda di termiti che innalza con pazienza, con indifferenza l’edifizio della mia morte. Provo a spegnere la luce. Puntini senza numero mi ballano davanti nel buio. L’altro, l’al di là da me? Quale alfabeto da cieco a cieco, quante rune da interpretare! Mi dicessero il mio nome, m’insegnassero chi sono, che vuol dire questa chiocciola di tempo e luogo che abito e non riesco a censire coi miei goniometri falsi. Io e il mio fascio d’arterie dure, i denti in rovina, le chiazze dì fungo sul collo, le varici, la mente che non ha più smanie né forza… E soprattutto, giorno e notte, quel dolore, quella volpe qui, dove premo la mano.
Questo è ora, guardatelo, il ragazzo di cento pagine fa.
E tuttavia il regalo era un altro, che avrei voluto dagli anni: dopo tanto soffrire fioco una settimana di strazio sublime, un’altezza da cui cadere. E che m’accompagnasse la Missa in angustiis per il Delfino morente, non questo piagnisteo di poveruomo buttato fuori dai bar. Invece mi toccarono solo iliadì da un soldo, tutta una piazza d’armi irrisoria, dove stasera contendo, recidivo e stroppio guerriero, a un falso dio vestito da nuvola il possesso d’un cadavere.
Le parole, dici… Non sono bastate, non bastano. Se ogni terrore, il più vero, il più nero, mi prolifica sotto la penna in anguille di vocalizzi, in infami trinità di aggettivi; se ogni tozzo di cuore, ogni brandello di viscere mi si traduce, venendo alla luce, in uno strepito di Coribante. Ahi ahi, lettore mio, solitario archiatra e uditore, eppure tu l’avevi indovinato sin dal principio, mio sosia e fedele caino a cui imploro da queste grinze di cartapecora! Perché non confessartelo, dunque? Scrivere è stato per me solamente un simulacro del vivere, una pròtesi del vivere. E ogni tropo ripeteva, ripete un tafferuglio di mercenari, un vizio da consumare nel segreto d’un gabinetto.
Menzogna, gogna, vergogna… Eccoti, lettore, la mia testa sopra una picca. Pourtant j’avais quelque chose là-dedans…
(Argo il cieco, Tascabili Bompiani, Milano, 2000)