I venerdì del Nucleo Kubla Khan – Hugo von Hofmannsthal

“Egli ha amato l’idea della morte assieme a quella della bellezza e della signorilità: fatto tipicamente austriaco. La morte è presente in tutta la sua opera, anche in quella più lietà, e già l’adolescente, il fanciullo di spirito principesco, l’ha definita in versi “un grande Dio dell’anima”. Ogni sua espressione melodica e piena di grazia – in prosa, in dialogo, in poesia – è intrisa della bellezza di morte.”

(Thomas Mann su Hugo von Hofmannsthal)

 

Hugo von Hofmannsthal nasce nel 1874 nella Vienna capitale dell’Impero Asburgico in delcino, crogiuolo di screziate tradizioni culturali. Sin da subito (escordisce appena diciassettene con il dramma lirico Ieri), si mostra capace di accogliere gli echi di culture già consolidate e di avvertire, nel contempo, le istanze dei movimenti letterari neonati e in fase di sviluppo. Nell’ultimo decennio del dicannovesimo secolo, il giovane Hugo compone una trentina di liriche, notevoli per il rigore e per lo stile nitido, e una serie di brevi drammi che, sebbene ancora legati alle strutture classiche, già presagiscono un’atmosfera ben lontana da quella naturalistica. Partendo da parole ricercate e sapientemente calibrate, Hofmannsthal medita sulla bellezza in direzione di un superamento del reale volto a creare percorsi onnicomprensivi all’epoca inesplorati, divenendo, di fatto, il trait d’union tra il naturalismo e il simbolismo. Scrive, infatti, nei suoi appunti: “Io vedo due epoche, come attraverso porticati aperti in un giardino e di là da esso un altro del tutto sconosciuto: un’epoca in cui ho paura che la vita mi strappi ai grandi antenati cosmici, una seconda in cui mi farà orrore abbandonare per l’aura cosmica la scura calda vita …” (Il libro degli amici, Firenze, Vallecchi Editore, 1963),

La prima frattura artistica è rappresentata da Lettera di Lord Chandos (1902), l’opera di cui oggi Biblon offre un saggio.

 

“Vienna fin-de-siecle. All’ombra della declinante monarchia asburgica, vivono e lavorano i più opposti talenti, da Strauss a Freud, da Schönberg, Musil. Hofmannsthal a soli diciassette anni si impone all’interno di questa ricchissima società letteraria e culturale e diviene la voce più alta del Decadentismo austriaco. La “Lettera di Lord Chandos” è la testimonianza di una crisi profonda, in cui l’autore, nelle vesti di un immaginario lord inglese, confessa e analizza la propria incapacità di dominare il pensiero e il linguaggio, di arginare la frantumazione del soggetto quale principio ordinatore della realtà: problema irrisolto di tutta la letteratura del Novecento”

(Dalla quarta di copertina di Lettera di Lord Chandos, Hugo von Hofmannsthal, traduzione di Marga Vidusso Feriani, BUR Classici Moderni, 2009)

Intenzionato, ormai, a rivolgere altrove la sua attenzione, Hofmannsthal, dopo la rielaborazione dei classici drammi di Sofocle Elettra (1903) e Edipo e la Sfinge (1906), ottiene un grande successo con il dramma  Ognuno, il dramma della morte del ricco (1911), rivisitazione della “moralità medievale” della morte del ricco.

L’incontro con Richard Strauss rappresenta la seconda frattura nel corso della sua opera. Per il compositore tedesco scrive i libretti (anche se risulta improprio e riduttivo qualificarli come tali) per opere come Il cavaliere e la rosa (1911, tradotta in italiano da Tommaso Landolfi), Elena egizia (1928) e Arabella (rappresentata nel 1933). Così scrive Strauss: “Dopo la morte del fedele e geniale Hugo von Hofmannsthal dovetti ammettere con rassegnazione che la mia produzione operistica si era conclusa… Hofmannsthal è stato l’unico poeta che oltre a forza poetica e talento scenico possedesse quel grado d’immedesimazione capace di offrire a un compositore di opere teatrali musicabili, di scrivere insomma un libretto adatto per la scena, di notevole valore letterario e, non meno, che si prestasse alla musica.”

Di spirito politico conservatore e per tutta la vita rimasto fedele ai valori morali e artistici dell’Austria asburgica, negli ultimi anni, Hofmannsthal si dedica all’organizzazione del “Festival di Salisbrugo” (attivo ancora oggi), perseguendo il proposito di elevare e valorizzare i variegati aspetti della cultura asburgica.

Muore nel 1929, all’età di 55 anni, per un’emorragia cerebrale.

***

Questa è la lettera che Lord Philipp Chandos, il figlio minore dell’Earl di Bath, scrisse a Francesco Bacone, che fu poi Lord Verulam e Visconte di Saint Alban, per giustificarsi con l’amico della propria totale rinuncia all’attività letteraria.

[…]

Per farla breve: allora, in una sorta di costante ebbrezza, tutto quanto esiste mi appariva come una grande unità: il mondo spirituale e quello fisico non mi sembravano giustapporsi, né l’essere cortese e quello animale, né l’arte e la non arte, la solitudine e la compagnia […] e in tutta quanta la natura io sentivo me stesso. […] Una esperienza valeva l’altra; una non era inferiore all’altra né nell’energia vitale né nel carattere onirico soprannaturale, e così era per tutto quanto la vita abbracciava, da ogni lato.

[…]

Il mio caso, in breve, è questo: ho perduto ogni facoltà di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento. In primo tempo mi divennne gradualmente impossibile trattare temi sia elevati sia comuni e formulare quelle parole, di cui ognuno suole servirsi correntemente senza stare a pensarci. Provavo un inspiegabile disagio solo a pronunciare le parole “spirito”, “anima” e “corpo”. Trovavo impossibile, nel mio intimo, esprimere un giudizio sulle questioni della corte, i fatti del parlamento, o quel che vogliate. E ciò non per qualche sorta di prudenza, e difatti conoscete la mia franchezza che giunge a sconfinare con la leggerezza: ma le parole astratte, di cui la lingua, secondo natura, di deve pur valere per recare a giorno un qualsiasi giudizio, mi si sfacevano nella bocca come funghi ammuffiti. […] Ogni cosa mi si frazionava, e ogni parte ancora in altre parti, e nulla più si lasciava imbrigliare in un concetto. Una per una, le parole fluttuavano intorno a me; diventavano occhi, che mi fissavano e nei quali io a mia volta dovevo appuntare lo sguardo. Sono vortici, che a guardarli io sprofondo con un senso di capogiro, che turbinano senza sosta, e oltre i quali si approda nel vuoto.

[…]

Sento dentro di me e attorno a me una solleticante infinita rispondenza, e tra gli elementi che si contrappongono nel gioco non v’è alcuno in cui non sarei in condizione di trasfondermi. Mi sembra allora che il mio corpo sia fatto di pure cifre, che mi rivelano il segreto di ogni cosa. O che potremmo entrare in un nuovo, significante rapporto con tutto il creato, se cominciassimo a pensare col cuore. Ma quando questo strano incantamento mi abbandona, non sono capace di parlarne, e non saprei spiegare con parole sensate in cosa sia consistita questa armonia che compenetra me e il mondo intero e in qual modo mi si sia palesata, esattamente come non potrei precisare i moti delle mie viscere e i sussulti del mio sangue.

[…]

Siete stato così amabile da esprimere il vostro rammarico che non vi pervenga più alcun libro scritto da me, “a compensarvi della privazione della mia compagnia”. In quel momento ho sentito con una certezza non scevra del tutto di un sentimento doloroso, che anche negli anni venturi, e in quelli seguenti, e in tutti gli anni di questa mia vita, nons criverò più nessun libro, né in inglese né in latino: […] perché la lingua in cui mi sarebbe dato non solo di scrivere, ma forse anche di pensare, non è il latino né l’inglese né l’italiano o lo spagnolo, ma una lingua di cui non una sola parola mi è nota, una lingua in cui parlano le cose mute, e in cui forse un giorno nella tomba mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto.

(Lettera di Lord Chandos, Hugo von Hofmannsthal, traduzione di Marga Vidusso Feriani, BUR Classici Moderni, 2009)

 

I Venerdì del Nucleo Kubla Khan è a cura di Nazareno Loise

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