I venerdì del Nucleo Kubla Khan – Tommaso Landolfi

“La mattina quando ci si alza dal letto, sebbene si rimanga stupiti di trovarsi ancora in vita, non si è meno meravigliati che tutto sia esattamente come lo si è lasciato la sera innanzi.” – Tommaso Landolfi, “Dialogo dei massimi sistemi”

Per introdurre un personaggio come quello di Tommaso Ladolfi (1908-1979), traduttore geniale (dal francese, dal russo e dal tedesco), scrittore visionario e funambolico, oltre che letterato di preziosa cultura, prendiamo in prestito le parole del critico Gianfranco Contini, secondo cui l’artista laziale è “il solo scrittore contemporaneo che abbia dedicato una minuziosa cura, degna d’un dandy romantico (quale Byron o Baudelaire), alla costruzione del proprio ‘personaggio’: un personaggio notturno, di eccezionalità stravagante, dissipatore e inveterato giocatore; un personaggio che viene introdotto e anzi ostentato costantemente nell’opera”.

Nel brevissimo racconto che oggi vi proponiamo, Landolfi offre un saggio della sua intera poetica: leggendolo, ci pare quasi che egli conficchi la sua penna, come fosse uno stiletto, nella pancia della letteratura e parola dopo parola vi affondi fino a farne affiorare le interiora più truci e succulente.
Nella cornice di un racconto ascrivibile, secondo Calvino, al genere del “fantastico”, la capacità d’istoriare la narrazione attraverso un uso eccezionale della lingua italiana, pur mantenendo sempre vigilie la tensione narrativa, contribuisce a rendere atipico un tòpos di genere come quello del lupo mannaro.

“Nel 1982, muovendo dalla constatazione che Landolfi ebbe in sommo grado «la dote di catturare l’attenzione e la meraviglia del lettore» ma accompagnata da una «fama d’impraticabilità e stranezza», Italo Calvino si cimentò nell’ardua impresa di allestire un invito alla lettura sotto forma di antologia. Dopo aver setacciato le raccolte pubblicate da Landolfi nell’arco di oltre quarant’anni, Calvino scelse da ultimo cinquantatré testi. Organizzati in sette sezioni che corrispondono ad altrettanti luminosi spunti critici – «Racconti fantastici», «Racconti ossessivi», «Racconti dell’orrido», «Tra autobiografia e invenzione», «L’amore e il nulla», «Piccoli trattati», «Le parole e lo scrivere» –, essi consentono di cogliere in tutte le sue rifrazioni un’opera sconcertante. E soprattutto di cogliere il vero Landolfi, quello che «sperpera le sue puntate d’un colpo o le ritira bruscamente dal tavolo col gesto allucinato del giocatore».”
(Dal risvolto de “Le più belle pagine. Scelte da Italo Calvino”, Adelphi, 2001).

In questa sede, ci permettiamo e ci sentiamo in dovere di consigliarvi la lettura, oltre che della già citata antologia di Calvino, di alcune altre opere di Landolfi, fra le tantissime: “Il Mar delle Blatte e altre storie”, del 1939 (in cui fu originariamente inserito il racconto odierno), “Rien va”, del 1963, “Des mois”, del 1967 e “Le labrene”, del 1974.

***

IL RACCONTO DEL LUPO MANNARO

L’amico ed io non possiamo patire la luna: al suo lume escono i morti sfigurati dalle tombe, particolarmente donne avvolte in bianchi sudari, l’aria si colma d’ombre verdognole e talvolta s’affumica d’un giallo sinistro, tutto c’è da temere, ogni erbetta ogni fronda ogni animale, una notte di luna. E quel che è peggio, essa ci costringe a rotolarci mugolando e latrando nei posti umidi, nei braghi dietro ai pagliai; guai allora se un nostro simile ci si parasse davanti! Con cieca furia lo sbraneremmo, ammenoché egli non ci pungesse, più ratto di noi, con uno spillo. E, anche in questo caso, rimaniamo tutta la notte, e poi tutto il giorno, storditi e torpidi, come uscissimo da un incubo infamante. Insomma l’amico ed io non possiamo patire la luna.
Ora avvenne che una notte di luna io sedessi in cucina, ch’è la stanza più riparata della casa, presso il focolare; porte e finestre avevo chiuso, battenti e sportelli, perché non penetrasse filo dei raggi che, fuori, empivano e facevano sospesa l’aria. E tuttavia sinistri movimenti si producevano entro di me, quando l’amico entrò all’improvviso recando in mano un grosso oggetto rotondo simile a una vescica di strutto, ma un po’ più brillante. Osservandola si vedeva che pulsava alquanto, come fanno certe lampade elettriche, e appariva percorsa da deboli correnti sottopelle, le quali suscitavano lievi riflessi madreperlacei simili a quelli di cui svariano le meduse.
«Che è questo?» gridai, attratto mio malgrado da alcunché di magnetico nell’aspetto e, dirò, nel comportamento della vescica.
«Non vedi? Son riuscito ad acchiapparla…» rispose l’amico guardandomi con un
sorriso incerto.
«La luna!» esclamai allora. L’amico annuì tacendo. Lo schifo ci soverchiava: la luna fra l’altro sudava un liquido ialino che gocciava di tra le dita dell’amico. Questi però non si decideva a deporla.
«Oh, mettila in quell’angolo,» urlai «troveremo il modo di ammazzarla!».
«No» disse l’amico con improvvisa risoluzione, e prese a parlare in gran fretta. «Ascoltami, io so che, abbandonata a se stessa, questa cosa schifosa farà di tutto per tornarsene in mezzo al cielo (a tormento nostro e di tanti altri); essa non può farne a meno, è come i palloncini dei fanciulli. E non cercherà davvero le uscite più facili, no, su sempre diritta, ciecamente e stupidamente: essa, la maligna che ci governa, c’è una forza irresistibile che regge anche lei. Dunque hai capito la mia idea: lasciamola andare qui sotto la cappa, e, se non ci libereremo di lei, ci libereremo del suo funesto splendore, giacché la fuliggine la farà nera quanto uno spazzacamino. In qualunque altro modo è inutile, non riusciremmo ad ammazzarla, sarebbe come voler schiacciare una lagrima d’argento vivo».
Così lasciammo andare la luna sotto la cappa; ed essa subito s’elevò colla rapidità
d’un razzo e sparì nella gola del camino.
«Oh,» disse l’amico «che sollievo! quanto faticavo a tenerla giù, così viscida e grassa com’è! E ora speriamo bene»; e si guardava con disgusto le mani impiastricciate.
Udimmo per un momento lassù un rovellio, dei flati sordi al pari di trulli, come quando si punge una vescia, persino dei sospiri: forse la luna, giunta alla strozzatura della gola, non poteva passare che a fatica, e si sarebbe detto che sbuffasse. Forse comprimeva e sformava, per passare, il suo corpo molliccio; gocce di liquido sozzo cadevano friggendo nel fuoco, la cucina s’empiva di fumo, giacché la luna ostruiva il passaggio. Poi più nulla la cappa prese a risucchiare il fumo.
Ci precipitammo fuori. Un gelido vento spazzava il cielo terso, tutte le stelle brillavano vivamente; e della luna non si scorgeva traccia. Evviva urrah, gridammo come invasati, è fatta! e ci abbracciavamo. Io poi fui preso da un dubbio: non poteva darsi che la luna fosse rimasta appiattata nella gola del mio camino? Ma l’amico mi rassicurò, non poteva essere, assolutamente no, e del resto m’accorsi che né lui né io avremmo avuto ormai il coraggio d’andare a vedere; così ci abbandonammo, fuori, alla nostra gioia. Io, quando rimasi solo, bruciai sul fuoco, con grande circospezione, sostanze velenose, e quei suffumigi mi tranquillizzarono del tutto. Quella notte medesima, per gioia, andammo a rotolarci un po’ in un posto umido nel mio giardino, ma così, innocentemente e quasi per sfregio, non perché vi fossimo astretti.
Per parecchi mesi la luna non ricomparve in cielo e noi eravamo liberi e leggeri. Liberi no, contenti e liberi dalle triste rabbie, ma non liberi. Giacché non è che non ci fosse in cielo, lo sentivamo bene invece che c’era e ci guardava; solo era buia, nera, troppo fuligginosa per potersi vedere e per poterci tormentare. Era come il sole nero o notturno che nei tempi antichi attraversava il cielo a ritroso, fra il tramonto e l’alba.
Infatti anche quella nostra misera gioia cessò presto; una notte la luna ricomparve. Era slabbrata e fumosa, cupa da non si dire, e si vedeva appena, forse solo l’amico ed io potevamo vederla, perché sapevamo che c’era; e ci guardava rabbuiata di lassù con aria di vendetta. Vedemmo allora quanto l’avesse danneggiata il suo passaggio forzato per la gola del camino; ma il vento degli spazi e la sua corsa stessa l’andavano gradatamente mondando della fuliggine, e il suo continuo volteggiare ne riplasmava il molle corpo. Per molto tempo apparve come quando esce da un’eclisse, pure ogni giorno un po’ più chiara; finché ridivenne così, come ognuno può vederla, e noi abbiamo ripreso a rotolarci nei braghi.
Ma non s’è vendicata, come sembrava volesse, in fondo è più buona di quanto non si crede, meno maligna più stupida, che so! Io per me propendo a credere che non ci abbia colpa in definitiva, che non sia colpa sua, che lei ci è obbligata tale e quale come noi, davvero propendo a crederlo. L’amico no, secondo lui non ci sono scuse che tengano.
Ecco ad ogni modo perché io vi dico: contro la luna non c’è niente da fare.

I venerdì del Nucleo è a cura di Nazareno Loise

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