Il testo poetico non rientra tra quelli per i quali è relativamente più semplice redigere una recensione. Sarebbe assurdo optare per un’analisi compiuta di ogni lirica così come neanche può restituirsi una facile sintesi da quarta di copertina. Sarebbero necessarie premesse sui gusti del recensore, e le premesse, però, rovinano il senso più profondo delle cose. Il senso, appunto, che fa la parola.
La raccolta di Valentina Perucca, Il senso che mi fa la parola (Eretica Edizioni) dimostra grande coraggio in apertura, introducendo il lettore con citazioni importanti. Dipanate le tende, infatti, appaiono sulla scena Walt Whitman e Leonard Cohen. “Ascolta, disse la mia anima Scriviamo per il mio corpo (in fondo siamo una cosa sola)”, dice il poeta americano, e “La poesia è solo l’evidenza della vita, se la tua vita sta bruciando bene, la poesia ne è solo la cenere”, invece il cantautore.
Il senso che mi fa la parola, dunque, è una raccolta che si incardina su presupposti importanti, e su promesse difficili da mantenere.
Parliamo di una silloge di cinquanta componimenti dove a spadroneggiare è un Eros delicato, anche quando prova ad essere irruento. L’eros non della spada – un eros eroico, guerriero e quindi liberatore – ma quello della coppa, l’inghiottimento e una distensione di corpi, l’arrivo più che la partenza, e un percorso digestivo.
I componimenti si rivolgono, per la maggior parte, a un tu a volte vicino, a volte remoto. Un coagulo di ricordi e presente che vacilla sulla scala del tempo di cui la poesia prova più volte a spostare le lancette. Una illusione, ma di quelle consapevoli, come sogni lucidi, forse talvolta incerta nel suo incedere tra realtà e immaginazione.
La silloge separa tre momenti che tra loro si incastrano in ragione delle immagini maggiormente utilizzate.
Occhi, bocca, labbra
Avvicinami alla mostra degli attimi,
al rimasuglio nel bicchiere,
dentro e nella rimanenza
delle tue labbra.
(Liberati dall’amore)
L’eros digestivo emerge nell’utilizzo canonico di alcune parole tra cui bocca o labbra spesso utilizzate in circostanze legate a istanti passati, così come la presenza del sale quale aspetto sensoriale, ne è una ulteriore indicazione. Il sale è, infatti, un residuo, ma un residuo prezioso, l’oro alchemico, il risultato di una sintetizzazione. È ciò che resta.
I ricordi e le emozioni della giovinezza vengono trasmessi attraverso la vista e il gusto. Occhi e bocca permettono alla poesia di raggomitolarsi all’interno delle accoglienti coperte dei ricordi, alla mostra degli attimi, dove il tempo è il nemico, il vincitore silenzioso di tutte le battaglie, che però si dimostra signore nel tributare ai vinti la possibilità della memoria.
Le mani e i denti
lascia i sorrisi dolci ed amari
insieme a mani spente al tocco
(Sul fondo del tempo)
Se gli occhi e la bocca (e con essi la vista e il gusto) rappresentano i sensi attraverso cui la scrittrice si interfaccia con il tempo, esiste, nelle liriche, una sorta di giudice impassibile, che riporta ogni cosa al presente, alla realtà dell’attimo, a volte con crudeltà o comunque senza compassione alcuna. Questo giudice è rappresentato dalle mani e dalle loro surrogate, le dita. Il tatto, infatti, taglia i ponti con il passato e trasmette la dispersione di calore da ciò che è stato al presente. Dalle mani passa il moto convettivo che sovrappone alle fotografie l’attualità. Le mani, nella loro pragmaticità, non consentono ai sogni e ai ricordi la sopravvivenza.
Purezza che ravviva il fuoco,
fanciullezza è sfilata
di fotogrammi davanti agli
occhi che una volta alle spalle
fingi di non conoscere
quando la mano ti tocchi
(Fanciullezza)
Tenere in mano una fotografia, infatti, non è come l’esserci al momento dello scatto, è questa l’amara consapevolezza che guida i passi della scrittrice.
Nelle ultime liriche, poi, la bocca subisce una demonizzazione. Alla dolcezza delle labbra si sostituisce il dispotismo dei denti, della masticazione. I toni si scuriscono, subiscono una virata ctonia verso la lucidità e l’inesorabilità: sopraggiunge la stanchezza. Il passaggio è sancito dalla poesia Sofferenza in cui il tempo, fino ad allora indulgente, ripiomba nel suo essere caverna e oscurità.
“– sofferenza – matrigna di sangue
addentata ai miei polsi che si fanno
al passo dei versi andanti
più flebili”
Il mare e la terra
Dove il senso che mi fa la parola fatica a ingranare è in tutti quei componimenti che abbandonano la casa e il letto, per dirigersi verso altre sponde nelle quali viene a mancare quel “tu” a cui la scrittrice si rivolge e a cui veniva ancorata la stessa poiesis. Accade quindi di incontrare liriche meno ispirate, tentativi di approcciarsi al sé attraverso strumenti classici che però non restituiscono la stessa forza presente negli altri componimenti utilizzando immagini forse anche stanche e abusate.
“Ragazza conosci il mare
come una sirena maestosa,
c’è un’insenatura in quell’afrore:
la notte dentro, tu anima tumultuosa,
il tuo amante risorto”
(Amante risorto)
Fa eccezione, tuttavia, rispetto a questo paradigma, viaggio semplice che con il suo incedere di fumo di sigaretta riassume le tematiche che pervadono il senso che mi fa la parola ed in particolare il passaggio del tempo dalla fanciullezza dove il ricordo si forma ad una età più matura che, invece, è come se gli applicasse un filtro, come il seppia o il crema.
“Una sigaretta accesa
sul bordo del tavolo fa da inganno
al contenuto, è teatro per poco
attraverso la strada che fa
la mia mano nel raggiungerla
fingendosi pensieri”
(Viaggio semplice)
Inoltre, la silloge presenta una certa ridondanza di figure e suggestioni, oltre che di strutture, alcune utilizzate dalla scrittrice davvero in abbondanza e anche in contesti simili, che finiscono per far perdere vigore e freschezza ai componimenti.
“lascia i sorrisi dolci ed amari
insieme a mani spente al tocco”
(Sul fondo del tempo)
“bastando poco due paia d’occhi e mani
a risalirsi da dentro la vena scoppiata”
(Giovane calda bellezza)
La bufera e altro
Il senso che mi fa la parola è, in definitiva, uno scontro tra il percepito e il percettibile, dove è piuttosto la parola ad essere senso e a trovarsi in difficoltà laddove il senso può e la parola non riesce a restituirlo. Una dimensione che però l’autrice fa sua e, anzi, la affronta come una sfida con il tempo che può anche essere persa, purché venga giocata.
“per lasciarci dopo aver tentato
infinite volte un denso discorso
raziocinio becero lui unico ubriaco
di parole inutili al sentimento e al sorso”
(Gioco divino)
“ingorghi di parole che vincessero
la fame, spezzando al muto,
con il silenzio, il pane”
(Pane di poesia)
La qualità principale della silloge è la capacità che ha di trasmettere i passaggi temporali, le scansioni linguistico-immaginifiche che scandiscono i diversi momenti e gli strumenti con i quali vengono poietizzati.
L’invito è a godersi la pienezza del presente anche alla luce delle esperienze passate, perché nel mondo qualcuno è più bravo|a sopravviversi (di profilo) seppur in una ottica di rassegnazione. Come si diceva, infatti, nelle ultime liriche, alla memoria e al ricordo da un lato, e alla percezione dall’altro si sostituisce la lucidità, l’andare lieve sulle punte uguale|a ciò che un tempo era giovinezza|è ora di stanchezza. Anche in questa fase, tuttavia, ancora resta la parola, che da senso diviene racconto
“La parola data
vaga come un tesoro sulle isole
dove presiedono i bambini
a mantenerla viva,
raccontandola ovunque,
facendola maestosa nella coerenza del sogno.”
(Manifesto)
Stefano Luchetta nasce a Cosenza il 16.09.1987. Dopo aver compiuto studi classici si laurea in Giurisprudenza, discutendo una tesi sulla libertà di manifestazione del pensiero, presso l’Università della Calabria. È iscritto all’albo dell’ordine degli avvocati di Cosenza. È uno dei fondatori del collettivo artistico Nucleo Kubla Khan e ha pubblicato due sillogi poetiche “Rugiada del Crepuscolo” (Leonida Edizioni, Reggio Calabria, 2014) e “La giostra e la catena” (Leonida Edizioni, Reggio Calabria, 2017) oltre ad altre pubblicazioni minori in antologia.