Intimo igneo intrusivo – Un racconto di Federico Binelli

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Bosco d’Autunno, 1841, Gustave Courbet, olio su tela, Collezione Privata

Ristette nella stanza in quel misero ritaglio di luce fronteggiante la finestra come fosse la sola dimensione in cui poter estendere la propria figura. Immobile, lo sguardo mirava in alto al campanile poggiato lassù, a mezza montagna, spiovente sopra il bosco naturante rigonfio e inesploso. Osservava all’altezza delle nubi, le quali, addensando in prossimità, mutilavano il verde aprendogli una ferita che sgorgava grigia all’insù verso una pozza di cielo ancor più enfia e grigia e nera, carica della sua minaccia da molto tempo ormai così sopita, non più trepidante poteri sconosciuti nascosti di là dalle vette. E ristette ancora, paralizzato al pensiero della ritirata della luce fuggevole anch’essa trangugiata dalle nebbie il bosco, la sua figura verticale che dominava ora solamente un esteso nero da cui veniva dominata, senza potersi muovere, osservando sé stesso alla finestra osservare là fuori le nubi e il verde e il nero, senza potersi muovere, ancora non intuendo le ragioni per certo sinistre di quella paralisi, se non la luce che ancora dilacerava per un attimo l’estesa barriera per fulminare la terra. Ma non era che un sussulto, al quale per altro lui non credette, e di nuovo vide la luce sparire, tanto che anche gli uccelli che correvano a scavalcarsi in cielo si fecero sgomenti, e si sedettero su quel davanzale alato accanto il ritaglio d’ombra da cui non poteva muovere imprigionato e come le altre creature atterrito.

Poco più in là un traliccio dell’alta tensione sovrastava l’ordigno verde covante inesploso e il minuto tetto spiovente della torre campanaria. Le sue braccia d’acciaio facevan da perno di gravitazione indicando al bosco intero la potenza in realtà superiore di quelle nubi radianti, sempre più a stretto giro convocate per eludere tutti gli altri poteri. Frattanto da sotto faticosamente s’inerpicavano a decine di derelitti, di pazzi, di criminali, gradino dopo gradino, lungo il sentiero serpeggiante aperto sulla linea di frattura della parete di roccia esposta alla vista, dal basso, dalla valle, sentiero spezzato da piante fulminate e riverse ad ostacolare l’incedere forsennato, e loro ebbri di quell’ascesa delirante, nel mentre di lontano il rombo dei tuoni annunciava un’irruenza di belva e le prime gocce di pioggia eccezionali (smisurate) come in un paleozoico del Borneo spezzavano le foglie e rivolgevan la terra. Ancora li si scorgeva avanzare folli e dissennati, per officiare quel culto demenziale ai piedi del traliccio, le nubi ora risucchiate più in alto in un punto di assurda condensazione, un ganglio di nero atmosferico a picco dalla pressione sconsiderata, circondato da un’ultima morente luce laterale che si concedeva soltanto per infestare quelle povere menti, per infestarle della perfezione d’un allucinato altare precisamente illuminato prospiciente la rovina, e gli incombenti ruggiti di lontano salmodiare l’incanto. 

Ristette ancora nel mentre osservava interi fasci di pioggia venir trascinati confusamente, a destra e a sinistra, in alto e poi rovinosi in basso, secondo ordine imperioso dettato all’ultimo come banchi di pesci tra le correnti marine, crepitando le gocce colossali con violenza sui vetri da cui si potevano scorgere appena i profili delle cose oramai trangugiate dalle foschie e dal tumulto, e anche le altre creature s’erano dileguate verso nicchie e anfratti inaccessibili, resi ignoti ai delegati del mondo con l’astuzia della specie, laddove potevano ristare in attesa che la furia cessasse. Frattanto lui continuava ad osservare i suoi pensieri che incupivano frangendo alla finestra, in quell’ampio ritaglio d’ombra della stanza deserta, dove dormiva poco più in là Elisa un pacifico sonno di pietra, sognando uomini dalle leve smisurate che correvano ad ampie bracciate, oppure nidiate di perle turchesi che figliavano a loro volta lentamente sotto la coltre del mare. Lui osservava ancora paralizzato da nessuna specifica paura, ma dell’evidenza sinistra dell’insieme degli elementi, i quali (non v’era più alcun dubbio) comunicavano apertamente con quella sua mente troppo troppo pensante e a chicchessia scoperta, che non si poteva proprio dissimulare, e quindi pur comprendendo l’intero tessuto che si ordiva, ciò che lo paralizzava era la matematica congruenza, la calibratura d’ogni fattore, che si pensava naturale per dire fosse caotico, gratuito, lanciato come una pulsione cieca e disordinata, eppure era lì innanzi a disporsi la perfezione micidiale, nel mentre il cielo esplodeva in boati che cadevano come accenti nei luoghi nevralgici del suo pensiero coerente. Frattanto il verde scuriva partorendo sotto la pioggia altro verde, la campana suonava a rintocco l’ora inudibile nel frastuono che lui però riusciva ad udire non altro perché sinistramente puntuale, in accordo per altro al decorso centripeto est-ovest delle nubi le quali, tra poco verso l’imbrunire innervate d’ogni bagliore, senza dubbio avrebbero virato clamorose al viola o all’antracite, e lei che allungava nel sonno morbidamente i ginocchi ignorando qualsivoglia fissazione per qualsivoglia cielo incombente alla finestra ammantato a notte (e anzi quel grande fungo ora si sarebbe pure messo a parlare), e i folli infine esausti che avevano frattanto raggiunto il traliccio.

Non portò nemmeno la mano alla maniglia, la finestra si aprì da sola, e se anche fu lui invece a spalancarla, era come si fosse aperta da sola. Immediatamente la pioggia scrosciante lo rese fradicio solo per condurre meglio la pelle, quindi il fulmine, che tutti sapevano stesse attendendo rannicchiato tra le nubi, davvero senza alcuna sorpresa, soprattutto per le creature che si erano dileguate, e per i fradici folli che osservavano anch’essi d’insieme dall’alto aggrappati ai piedi del traliccio, come per accertare l’influsso elettrico del loro tremendo officio, il fulmine, che lui sapeva fosse lì ad attenderlo secondo l’evidenza del disegno che si era predisposto, e non poteva sfuggirvi se non semmai ritardare, come per altro aveva fatto anche involontariamente, solo perché sgomento dall’incredibile tessitura di cui tuttavia rimaneva un semplice punto d’articolazione, senza scordare mai la vertigine di tutti gli altri fulmini che aveva osservato esplodere fino all’istante precedente, il fulmine lo folgorò non appena aperta la finestra, davvero senza alcun indugio, perfettamente dov’era in quel ritaglio d’ombra dove ancora per un poco aveva potuto poc’anzi ristare, ora spaccato invece nella sua densità d’ombra dalla luce abbagliante del fulmine per la quale ci si chiedeva, come lui si era chiesto ogni giorno della sua vita dall’inizio del nubifragio, se ne sarebbe stato degno, se quel fusto di carbone annerito scoppiato negli occhi violacei ed esausti, che ora giaceva immobile nella stanza deserta, era stato degno, per quell’istante divenuto cieco, violato il ritaglio d’ombra dove lui lentamente aveva esteso la propria figura, se era stato degno dei diecimila soli avvampati dall’inizio della sua vita e concentrati poc’anzi in dono in un’unica scarica di fuoco, all’apice geometrico di quel cielo luminescente annerito, all’apice di quel nodo apicale di tenebra, insomma se era stato degno di tanto fulgido acuto morire.

(c)2022 Federico Binelli

Federico Binelli nasce a Tione di Trento nel 1980. Successivamente agli studi di matematica e filosofia all’Università di Trento, decide di dedicarsi alla lettura, alla scrittura e alla montagna, ovvero ad ulteriori sette anni di studi matti, isolati e disperatissimi. In via del tutto incidentale scrive racconti, componimenti poetici, sceneggiature di graphic novel, liriche per il collettivo Geisterchor. Prima proposta editoriale è il romanzo «Sulla rima di frattura», scritto tra il 2020 e il 2021. A seguire una raccolta di 99 liriche intitolata «Tralicci», completata nella primavera del 2022. Il breve racconto «Intimo igneo intrusivo» è di pochi giorni successivo.

Dal 2013 cura un blog di letteratura, filosofia, musica, cinema, scienza e quant’altro purché vi sia della bellezza. Professionalmente, all’incirca dal 2010, si occupa di sistemi informatici e altre sciocchezze. 

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