Malattia, isolamento, morte.
Amras è un romanzo luttuoso, che parla di lutti, che nomina più volte la morte e la Natura che gela i corpi, in cui i pezzi paiono propaggini di rami che sporgono dai campi.
Racconto lungo, più che romanzo, Amras (Einaudi, 2019, traduzione di Magda Olivetti, prefazione di Vincenzo Quagliotti) è anche il libro più amato dallo stesso Bernhard, che lo scrisse dopo quel capolavoro di Gelo (ma i capolavori sono multipli nella bibliografia dello scrittore austriaco).
Il gelo è dunque presente ancora qui, in questo, dicevamo, racconto/romanzo “giovanile”, che di giovani parla: K. e suo fratello Walter sono rinchiusi in una torre, scampati al programmato suicidio dei loro genitori, e isolati dallo zio che tenta di scongiurare la vergogna sociale.
L’Austria di Bernhard, o ancora il Tirolo, ancora più odiato (ricordiamo le tirate violente di Wertheimee ne Il Soccombente), soccombono (ci ripetiamo) anche in queste poche pagine che mimano un resoconto romanzesco, epistolare, frammentario di una follia inevitabile e necessaria.
Ogni personaggio che appare in Amras, anche, sosteniamo noi, i fuggevoli contadini che ci sembra di scorgere solo in superficie, con le loro notti fatti di sogni tanto grevi; ogni personaggio, dicevamo, sperimenta la pulsione di morte, non solo lo studioso di scienze naturali K. o il suo fratello Walter, studioso di musica e letteratura, malato di epilessia definita “tirolese”, della quale ne soffriva la defunta madre.
La pulsione di morte, ci scrive in prefazione Vincenzo Quagliotti, lacera entrambi, “uno per natura e l’altro per contagio”.
“Amras concentra ossessioni tematiche peculiari: la malattia, l’isolamento, la follia, l’amicizia, il fardello dei legami familiari” che ci dice sempre Quagliotti saranno caratteristiche delle opere future; strali violenti e sarcastici, e violenti proprio perché ripetuti col tono dello scherno e in quella magnifica forma di “frase infinita” (Aldo Gargani).
In questo, Amras che deve molto alla lettura di Novalis del suo autore: la frase non travalica, ma sembra puntuta, precisa, sicché poi prevale la frammentarietà, prodotto di una impossibile estraneità con la natura e il mondo.
K si frammenta nella sua esposizioni: appunti, lettere, resoconti interrotti, ma il tutto pienamente coerente e mai sfiorando il non senso, forse perché il collante a tutto resta quella sensazione di morte mista a una toccante e impossibile sensazione di vita, di un sentimento sfiorato che si adombra nel paesaggio stesso.
Nel mondo di Bernhard si soccombe, lo sappiamo per bene, e i due fratelli, chiusi nella loro torre sono “abituati a osservare ogni cosa che fallisce, ma qui nella torre, perturbati, messi a parte dei segreti dell’intera natura, tutt’a un tratto percepimmo la saggezza della putrefazione…”
Più volte menzionata, la putrefazione, prima ancora che il gelo e dunque la morte senza odori: “una volta infilammo i nostri corpi sotto mucchi di mele, sotto montagne di pere, affondando nella muffa, nel marciume… quasi desiderassimo morire soffocati lentamente in quella sorta di mutilazioni dei nostri sensi… Spesso infliggevamo ferite ai nostri corpi.”
La vergogna, dicevamo, non toccherà i futuri protagonisti dei romanzi dell’Austriaco, o per meglio dire, saranno a loro volta i protagonisti a essere accusatori e svergognare la perbenista Austria.
K e Walter, invece, soffrono. Lo zio li protegge nel loro isolamento, ma Walter è malato, debole rametto pronto a spezzarsi. E la fine di questa unione fraterna, per quanto crepata, è lo sfaldarsi della scrittura di K, che frammenta ancor di più le sue riflessioni, le blocca sulle labbra come filamenti marci.
“La tragedia, la tragedia della tragedia, che è sempre stata soltanto un tentativo di tragedia.”
“La consapevolezza che tu non sei che frammenti, che i periodi lunghi o brevi e anche quelli lunghissimi non sono che frammenti… che la durata delle città e dei paesi non è altro che frammenti… anche la terra un frammento… che tutta l’evoluzione è un frammento… che l’interezza non esiste… che i frammenti si sono sempre formati e continuano a formarsi… nessuna via, soltanto arrivi, che la fine è priva di consapevolezza… che, dopo, nulla esiste senza di te e che di conseguenza non esiste nulla…”
“Passa una bara, portata a spalle: il prete segue la bara, la sorella del morto segue la bara (dietro al morto), la sposa del morto, i figli del morto, i lontani parenti del morto, che loro suppongono si trovi nella bara, poi la musica”: un frammento che ci ricorda i funerali senza pietà del mondo narrativo bernardiano, pensando al funerale di wertheimer ne il già citato Soccombente.
La morte, dicevamo, è associata come non mai alla Natura, alla puzza d’urina dei cadaveri che ci fa prudere il naso, “la morte che scende dalla foresta di larici, che giunge dall’aria, la morte che ha fissa dimora nella casa tra i boschi…”
Tutto è minaccioso, in Amras.
La malattia vive nel nostro respiro.
La natura è regno di dolore e sofferenza.
Giovanni Canadè