#gliIneditidiBiblon è una rubrica dedicata alla pubblicazione di racconti inediti. Per avere info e per inviarci i vostri scritti la mail è g.canade@biblon.it
Questa settimana pubblichiamo “Le crepe del panico” di Elena Ramella
(Kintsugi Rose Gold Heavy weight wallpaper from Graham & Browns Superfresco Collection. Modern Marble stone design in bright metallic Rose Gold & beige. Paste the Wall 64cm Offset Match Washable 53cm x 10m)
Si guarda allo specchio, si guarda guardarsi, si appoggia ai bordi del lavandino, cerca di respirare, ma ormai è troppo tardi, è impossibile ristabilire un ritmo, tutte quelle tecniche che le avevano insegnato gli psicologi erano assolutamente inutili; stava scivolando velocemente via e non c’era nulla che potesse tenerla ancorata alla realtà.
Si guarda allo specchio, e non c’è niente di più doloroso del vedere il proprio viso diventare bianco e gli occhi cerchiarsi di viola, non c’è niente di più doloroso del vedersi andare via, del vedersi soffrire. Il panico era così: una marea incontenibile, l’eccesso di qualcosa di indefinibile, una coperta pesante gettata improvvisamente addosso, un soffitto che continua ad abbassarsi, l’aria che viene tolta dai polmoni, l’ossigeno che non arriva più in nessuna parte del corpo.
Le mani iniziano a formicolarle: le solleva, le stringe in un pugno, le allarga, le stringe ancora, allarga i palmi, li guarda tremare e impreca, perché, perché, perché proprio a lei!
Si guarda allo specchio, come un mutilato che prende coscienza del suo arto mancante, il dolore fantasma è un riflesso. Più la ferita si allontana e più il trauma fa male, sembra paradossale, ma è così. Vorrebbe una pastiglia, una delle pastiglie magiche, ovali nel blister con la scritta nera: con una di quelle passa, passa quasi immediatamente.
Cerca di respirare ma è un continuo fallimento, anzi, più ci prova e meno ci riesce, più pensa a riempire i polmoni e meno aria entra dalle sue narici. Trema e pensa che non smetterà mai, intorno a lei la stanza inizia a girare, ma non è una vertigine, è molto di più; è la testa che inizia a girare dall’interno. Ci deve essere un punto minuscolo, grande quanto la capocchia di uno spillo, da qualche parte nel suo cervello, che in quei momenti si sposta bruscamente e fa girare tutto quanto. Viene dall’interno, è quello che vorrebbe dire. Viene da dentro. Da dentro. Dentro.
Pochi minuti che a lei sembrano ore, anzi, neanche, non saprebbe quantificarlo, non è un tempo né breve né lungo, semplicemente non è tempo, tutto si dilata e non ci sono più confini. Nel giro di quei pochi minuti, che a lei sembrano ore, tutto precipita. Ora svengo, ora svengo, ora svengo, pensa. Cazzo. Ancora una volta, l’ennesima volta, no. È un vortice di paure, di terrori, di incubi, di istinti di sopravvivenza, tutto concentrato in un solo, singolo, minuscolo momento. E non c’è un punto di fuga per lo sguardo, continua a guardarsi allo specchio, continua a guardare guardarsi, come se questo potesse ricordarle e farle capire che lei è ancora lì.
Quando arriva il culmine lei sta già aprendo la porta del bagno, in due passi raggiunge il bordo del letto, ma non sente più il suo corpo. Non ha più né peso né consistenza, non esiste più, non ha più pelle, organi, tendini, è solo più un gomitolo di nervi al centro del petto. È quello il momento. È quello il momento in cui sente che qualcosa si rompe dentro di lei, ogni singola volta, a ogni attacco. È come una frattura interiore, ne sente anche il rumore, secco e rapido, e dopo è tutto in discesa.
Dopo il respiro inizia a farsi sommesso, sconnesso e aritmico ma un po’ più regolare. Dopo il corpo inizia a tornare, lentamente, un pezzo dopo l’altro. La crisi è finita, l’attacco sta passando, è tutto finito. Resta con lo sguardo fisso sulla parete davanti a lei mentre si sente tornare nella realtà. Sente di nuovo i rumori, l’odore dell’aria, vede di nuovo i colori delle cose. Non ha più forze ma ormai il peggio è passato. Anche questa volta è sopravvissuta. Anche questa volta qualcosa si è rotto, c’è una nuova crepa dentro di lei, la riempirà con qualcosa; ci sono culture che venerano le ferite, che le rendono delle vere e proprie opere d’arte.
Che banalità, le crepe riempite d’oro di quei vasi orientali. Eppure è così che vanno le cose: si impara a convivere con le proprie ferite, si impara a non vergognarsene troppo, le si nasconde ma allo stesso tempo si cerca di abbellirle, di renderle speciali, una per una.
Elena Ramella