L’ossessione della scrittura. Intervista a Sergio L. Duma

Vi proponiamo la prima di una serie d’interviste a scrittori e personalità del mondo editoriale. Iniziamo la serie ponendo alcune domande allo scrittore Sergio L. Duma, prolifico scrtittore salentino, autore di storie sempre al confine tra realtà e incubo. Il suo ultimo romanzo è Le voci dei morti (Montag, 2017), ma ricordiamo altri titoli quali Tempi terribili (Teomedia, 2016), Arcani maggiori (Bibliotheka Edizioni, 2017) e Benvenuti a Twin Peaks (Panesi Edizioni, 2017).

 

Perché scrivi?
Se dovessi rispondere in maniera convenzionale, direi che scrivo perché mi piace farlo e perché adoro inventare storie il più possibile coinvolgenti. Sarebbe senz’altro la verità ma per me scrivere non si riduce a questo. Considero la scrittura una valvola di sfogo e la uso per descrivere e per fare emergere l’oscurità che mi porto dentro. Ho fantasie inquietanti che mi ossessionano e, grazie alla scrittura, me ne libero, almeno momentaneamente. Ciò mi consente di vivere in modo più equilibrato. Nel corso della mia vita ho avuto sempre tante paure che, peraltro, neanche adesso mi abbandonano, anzi! Uso, quindi, la scrittura per esorcizzarle. Inserendole in un contesto narrativo ideato da me, mi illudo di tenerle sotto controllo. Penso, inoltre, che scrivere sia anche una malattia. Per me è certamente così. Vedo lo scrittore come una persona affetta da un virus creativo. Un virus che ti costringe ad affrontare e mettere per iscritto i lati più spiacevoli, imbarazzanti e reconditi della tua personalità. In definitiva, scrivo perché non ne posso fare a meno. Se smettessi di farlo, impazzirei definitivamente.

Da quanto scrivi?
Sin da quando ero piccolo. Scrivevo piccole riflessioni, inventavo storie, annotavo pensieri vari. Per me era una cosa naturale. Durante l’adolescenza, incominciai a pensare a una futura attività di scrittore ma si trattava più di una fantasia che di qualcosa di concreto. Ricordo, però, che scrissi un primo, ingenuo romanzo, ambientato a Berlino. Aveva a che fare con il terrorismo ed era influenzato dall’atmosfera musicale della trilogia berlinese di Bowie, quella degli album ‘Heroes’, ‘Low’ e ‘Lodger’, tanto per capirci. Era pessimo, naturalmente, ma mi fu utile e mi fece capire che forse sarei stato in grado di fare qualcosa in questo ambito. I tentativi più seri li ho fatti però in seguito, quando frequentavo l’università. Studiando e leggendo, in particolare, poeti e scrittori inglesi e americani, non potei non farmi influenzare da loro. Non fu un’influenza stilistica e tematica, in ogni caso. Li vidi piuttosto come esempi. Mi dissi, se loro ce l’hanno fatta, magari potrei farcela anch’io. Tuttavia, non pensavo a una ‘carriera’ letteraria, a un’attività professionale. Per molti anni, infatti, ho scritto esclusivamente per me, senza proporre nulla agli editori, anche perché pensavo che le mie opere non potessero interessare a nessuno. Come ho detto rispondendo alla domanda precedente, scrivere era uno stimolo irresistibile, una specie di virus, e mi sono comportato di conseguenza.

Come scrivi?
Di solito parto da un’idea o dai personaggi che mi vengono in mente. Cerco di pensare a un evento preciso che può dar vita a una storia. A volte può trattarsi di un’immagine, del titolo di una canzone, di una frase letta in un libro o sentita in un film. Non ho comunque regole fisse. Normalmente, quando incomincio a scrivere, seguo l’istinto e, specialmente nei primi capitoli, non so mai come la storia andrà a finire. Questo lo capisco in seguito, man mano che procedo con la scrittura. Mi affido all’intuizione e finora non mi ha mai deluso. Per esempio, ora sto quasi per finire la stesura di un romanzo piuttosto corposo caratterizzato dalle mie solite fantasie visionarie. Come l’ho incominciato? Tutto è nato da un articolo che ho letto sul missile balistico intercontinentale di Vladimir Putin, chiamato Satan-2. Ecco, l’immagine di quel missile mi ha suggestionato ed è proprio dall’idea del missile che ho iniziato a delineare una storia. Se non avessi letto quell’articolo, sicuramente non avrei scritto nulla.

Quanto tempo dedichi alla scrittura?
Di solito scrivo ogni giorno, anche perché, oltre ai romanzi, mi occupo di recensioni e altro. Quando sono impegnato nella stesura di un romanzo, generalmente scrivo un capitolo al giorno. A volte, però, possono esserci alcuni giorni di pausa tra un capitolo e l’altro. Dipende dagli impegni, dal tempo e così via. Tendenzialmente ci impiego cinque o sei ore al giorno per la scrittura. Naturalmente, c’è poi la questione della revisione ma quella avviene quando il romanzo è concluso.

Quali sono le tue personali tecniche di scrittura?
Se devo essere sincero, ritengo di non avere tecniche specifiche. Come ho già spiegato, seguo l’istinto e, mentre scrivo, è l’istinto a suggerirmi se una frase va bene oppure no, se una conversazione può essere o no efficace, eccetera eccetera. L’unica cosa consapevole che faccio spesso è inserire diversi punti di vista, narrazioni che si alternano, ambientazioni parallele, testi di canzoni, articoli di giornale, stralci di sceneggiatura, conversazioni da chat e così via. Lo faccio perché mi sembra che il testo in questo modo sia imprevedibile e poco noioso, e l’ultima cosa che voglio è che i miei romanzi siano noiosi.

Scrivi in base all’ispirazione oppure sei metodico e scrivi anche quando non hai idee da sviluppare?
Ho in parte già risposto. A livello generale, scrivo sempre perché mi occupo anche di altro (recensioni, articoli e così via). Se si tratta di un romanzo, invece, devo per forza avere un’idea di base, altrimenti non riesco a combinare nulla.

Prima di proporti all’editore fai leggere i tuoi scritti a qualcuno di fiducia per avere dei pareri?
No. Non mi interessano i pareri altrui. Io la vedo così: lo scrittore scrive un romanzo e deve essere soddisfatto di ciò che ha scritto. Se ha dubbi, allora deve riscrivere ciò che non lo convince e continuare a lavorare sul testo. Una volta che sente di aver realizzato un buon lavoro, non ha bisogno di pareri esterni. Lo propone a un editore e amen. Se l’editore lo accetta, tanto di guadagnato. Se lo rifiuta, pazienza…

Che rapporto hai col lavoro di editing dell’editore?
L’editing dell’editore è essenziale. Finora mi sono sempre trovato bene. Quando, a volte, qualche editor mi ha proposto eventuali modifiche, ho sempre seguito i consigli. Non considero i miei romanzi alla stregua delle Tavole della Legge. Gli opportuni interventi, se intesi a migliorare l’opera, sono ben accetti. Comunque, finora sono stato abbastanza fortunato, nel senso che nessun editor mi ha mai chiesto cambiamenti consistenti. Al massimo, si è trattato di modificare una parola o una frase. Niente di terribile, insomma.

Che rapporto hai col pubblico?
Rispondere a questa domanda mi risulta difficile, anche perché non sono certo uno scrittore affermato e non credo di avere un pubblico specifico. Ogni tanto, ho ricevuto qualche e-mail o qualche messaggio su Facebook da parte di persone che hanno avuto modo di leggere qualcosa di mio, facendomi i complimenti, ma questo è tutto, sinceramente.

 

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