Quando il Direttore Editoriale del mio spirito (che poi, per mera combinazione, è anche colui che mi commissiona queste recensioni per conto di biblon) mi ha dato in consegna Mancanze, resti e giochi di Alessandro Ansani, ci si trovava entrambi, assieme ad altri, in una piazza a discutere di inezie, di libri e di facezie.
Fra quei mattoni – o inutili cappelli che poggiate sui discorsi – è accaduto un fatto.
Gli è che ho posato il libro in questione sopra un basso muricciolo, che mi fungeva anche da seduta, e mi sono allontanato per un momento, uscendo dalla piazza. Ritornando, ho deciso di non ripercorrere i miei passi, ma di scavalcare proprio quel muricciolo e di abbreviare così chissà quali tempi. Ed è lì che è accaduto il fatto, anzi è caduto. Già, perché nel sollevar la gamba ho urtato con la punta del piede il malcapitato libro dell’ignaro Ansani, che è quindi finito in terra lanciato qualche metro più in là (il libro, non Ansani, chiaramente).
Segno del destino, sciagurata prefigurazione degli eventi futuri: questo è un libro da scaraventare in terra, ho pensato. Maledetto Canadè: a quale tortuoso artifizio da censore mi costringerai con questo Ansani?
Credo che smentire sia peggio di mentire, ma smentir-si è senz’altro più divertente che mentir-si.
La raccolta poetica, edita da Ensemble (Roma, 2019), conta cinquantacinque poesie suddivise in tre sezioni (Mancanze, Resti, Giochi di parole, parole di giochi), cui s’aggiungono Cinque piccole prose.
Ansani è quello che i critici più adusi alla sommarietà definirebbero “una bella penna”. Ora, quello che serba in sé questa indolente, seppur suggestiva espressione, è un mistero ch’ognuno potrebbe svelarsi o non svelarsi a piacer proprio. Sommariamente concordo, poiché presa nella sua interezza, la raccolta indica un variato sentire artistico che, passando per il setaccio d’una solida sintattica, si trasforma in un’avveduta composizione di immagini e di suoni.
Vi par poco per un poeta? Direi di no, e se a ciò aggiungiamo la predisposizione dell’autore a farsi scegliere dalle parole più opportune e la sua capacità conseguenziale di saperle accostare con stupore, l’uso accorto e occasionale di rime (interne, alternate e baciate), di assonanze e di allitterazioni e la lodevole attenzione ch’egli riserva alla metrica (tra settenari, endecasillabi e ottonari), ecco, se consideriamo tutto ciò, non possiamo definire l’esito poetico di Ansani né infausto né sconcio.
La tematica di fondo della raccolta è tutta novecentesca: un io si barcamena, con angoscia e disincanto, tra le rovine dell’umanità e della propria identità, in quanto soggetto in crisi e con sempre meno punti di riferimento cui appendersi.
Quest’io sine identitate, spesso riparato con furbizia dietro un tu d’eco montaliana, vien ben calato dall’autore in un’atmosfera mobile, pensata sull’ambigua tratta della fallace partenza e del repentino ritorno. Esso vive d’un moto segmentato che ricorda quel gioco in cui a un racchettino è collegata una pallina mediante un elastico: la palla pare scappar via in aria, ma poi una forza inopinata la strattona bruscamente imponendole il ritorno al punto di partenza. Così i versi di Ansani si slanciano per poi tornare indietro arresi, “appesi” e “a peso”.
La raccolta, in virtù d’un arpeggio che la sottende interamente, appare molto coerente, quasi monolitica, e in quanto tale compatta e solida senza dubbio, ma talvolta fin troppo rigida, ancor di più se non consideriamo la coerenza una virtù. E allora il filo logico che seguono le poesie, di tanto in tanto, si tramuta più in tautologia che in altro. Capita che le poesie si rassomiglino fin troppo tra di loro e che la capacità di sintesi della Poesia lasci spazio al disgraziatissimo piacere onanistico della scrittura. Per carità, purché si scriva bene (e Ansani lo fa), a noi va bene tutto, ma, ad esempio, quello che l’autore ripete in una ragguardevole quantità di componimenti, circa il senso di insostanziale eternità che è poi alla fin dei versi l’essenza della raccolta, egli lo ha già compresso in un verso: “si era ancora, prima” (Resti, IX).
E allora perché indugiare su troppi versi “stanchi che abbaiano uguale” (Resti, 10)?
Ansani ha una sua idea consolidata di poesia, di cui si riconoscono le superficiali genitorialità (tra le altre, Baudelaire, Montale, Saba e Palazzeschi, come indica opportunamente Irene Cheli nella seconda prefazione al volume) e la persegue di fatto, più o meno conchiusamente, a dispetto degli anacronismi sciorinati dagli attuali manichei del liberissimo verso, attrespolati “furbescamente fuori” dal metro, e a dispetto di chi, a una studiata struttura della poesia, oggi più che mai, preferisce lo sproloquio dei sentimenti.
A tal proposito, si ha l’impressione che quando l’autore scenda a parlare trivialmente del triviale, la sua voce, così solitamente poco rasoterra nel trattarlo, strida e par quasi che il poeta si sdoppi, ma d’un’alterità che non qualifica, ma quantifica. In queste occasioni, l’autore si palesa “smaccatamente” agli occhi della sua stessa poesia e perde quel tratto lieve “senza dismisure da incorniciare” (Resti, 3).
In questo senso, valutate anche voi se “(Era nei nostri ani/ la sola poesia,/ nello spulciarsi greve/ una letteratura)” (Mancanze, XVIII) non voli molto meglio di “Tu mi ricordi – invece -/ gli abbracci che darei/ le notti a Garbatella,/ le birre profumate,/ le stelle su Trastevere,/ le sere che berrei”, (Resti, 12). Questi ultimi versi mi risultano triviali non nell’esternazione d’una qualche volgarità, ma perché ripetutamente letti e banali.
Anche nella prosa (a cui l’autore riserva un posto in appendice alle poesie), di tanto in tanto l’autore rovina nella scontatezza del “vai a mille”. Quando ci sono “nuvole come cornici e albatri come gonfi decori” (Prosa 2) si vola alto. Altrove, no.
Che, a volte, Ansani non sia più lui? No, credo dipenda dalla sua lingua, appunto tutta novecentescamente senza identità, che in alcune poesie c’appare “bulimica e blesa” (Mancanze, I). “Si è ancora nell’errore”, come uscirebbe detto a Carmelo Bene (da una cui citazione prende il titolo una sezione della raccolta): si è troppo impantanati nel pensiero, attributo del soggetto, per poter parlare della reale dissoluzione del soggetto in maniera sineidentitaria. Lungi da me imputare ad Ansani questa incapacità, è affare di pochissimi Ciclopi del Pensiero, bisogna dargliene atto. Ma se “Non c’è più l’Azione, è sparita” (Mancanze, XIX), bisogna anche rendersi conto che non è cosa di poco conto esser formalmente impeccabili pur restando fedeli allo scarto fulmineo della creazione poetica. Non è il pensare e poi la metrica, ma il de-pensar metrico a far sì che l’Atto possa finalmente uccidere l’Azione. E lungi da me, anche, affermare che Ansani abbia fatto un torto a C.B.. Almeno non in questo caso.
Altrove, però, ho inteso una fastidiosa contraddizione, di cui adesso parlerò semi-svestendo il tabarro del recensore.
Ansani immola la poesia 2 della sezione Resti alla memoria di Giovanni Raboni, a cui C.B. si rivolgeva così nel 1988 in un’epica puntata di Mixer Cultura: “Raboni che scrive Canzonette mortali […] Raboni! Canzonette mortali non è degno d’un poeta, non è degno d’un cestino, io non l’ho cestinato per non sporcare il cestino. Cos’è quella, poesia? Ma siamo pazzi davvero?”
Ecco, in una raccolta poetica in cui la Voce spettrale di Bene pervade più o meno ogni singolo verso, la presenza raboniana, a me, pare stonare.
È questa, usando le parole dello stesso autore, “una colpa di scena”.
Ma gliela perdoniamo al bravo Ansani. Gli perdoniamo questa e altre incespicature, poiché è, comunque, un autore che si differenzia da tanta versaglia che c’inonda.
E allora, per riavvolger le fila del discorso (possa io perdonarmi questa bruttura!), eccomi qua ad affermare che Mancanze, resti e giochi di Alessandro Ansani non è un libro da scaraventare in terra, lontano da sé e dalle sedute e che, anzi, tutto sommato, è una lettura che vale il tempo esperire.
Soltanto, vorrei dirgli, di rimaner sempre fedele alle sue particolarità, ché ben ho visto quanto impressionino, e di farsi sordo agli echi della banalità.
Accogli questa chiacchiera, caro Ansani, con tua buona pace.
In fondo, tu stesso scrivi “Che mi si possa indovinare […] vorrei fosse concreto” (Resti,7).
Ma atroce sarebbe indovinare un poeta. E più ancora indovinare la Poesia.
P.S.: rivolgendomi, in realtà, non so a chi, lancio un appello. Fate leggere ai bambini (e a chi ancora vuol sentir come loro) la poesia I della sezioni Giochi di parole, parole di giochi: quest’è una filastrocca, un poco trilussiana un poco rodariana, che con grande compiutezza riuscirebbe a presentare ai bimbi la Grande Zia (invero, un poco madre e un poco morte) della Poesia: la luna.
Fàtelo e loro ne avranno memoria in tutte le altre lune che frequenteranno nei poeti.
Nazareno Loise