Memorie di una testa decapitata – Sul senso della scrittura negli stati di maggiore depressione

Ho avuto, in passato, velleità letterarie.
Ho scritto (continuo a scrivere e a farmi leggere, certo), ma puntavo in alto.
Ho pubblicato, ho avuto delle soddisfazioni personali e le ho sempre vissuto col timore e il brivido del fallimento.

Per alcuni anni ho addirittura abbandonato ogni scrittura, deluso da me stesso, in preda alle mie paure. Poi, tornata la voglia e la passione, mi sono incamminato con prudenza e temerarietà verso il mio mondo narrativo, il mio fantasticare, rendendolo ancora una volta pubblico. Sembrava che qualcosa stesse funzionando: essere abbastanza soddisfatto del proprio lavoro (seppure in una fase iniziale, un nuovo inizio, un esordio continuo) ed essere letto, senza un eccesso di vergogna. Sembrava si fosse sbloccato qualcosa in me, pensavo di aver trovato il giusto passo.
Ed è lì che tutto è crollato, quando ho realizzato che davvero credevo in me stesso, nelle mie capacità. Avevo delle velleità, avevo una mèta, ed essermelo riconosciuto mi ha tagliato le gambe.

Scrivo, pubblico per lettori numericamente miseri che, raramente, esprimono un reale interesse per ciò che realizzo.
“Mi piace leggerti” è la frase tipica di chi non ha il coraggio di invitarmi a smettere, a non esagerare.
“Scrivi pure, ma non pubblicizzarti, non farti leggere. Non vogliamo mica dirti cosa fare della tua vita, che sia chiaro! però facci questo favore, non farti leggere”, mi ha detto qualcuno di più ipocrita.
Un colpo alle ginocchia. Secco, fatale.

Vomito e pianti. Una pagina perennemente bianca. Una scrittura autistica.
Abbandonare ogni idea di autorealizzazione.
La scrittura è per gente capace, non per un codardo mediocre che non ha talento e tecnica.
Un fenomeno da baraccone, un tipo strano che dovrebbe usare la scrittura in funzione esclusivamente terapeutica. E la funzione terapeutica della scrittura non ha legami, se non labili, con la letteratura.
“Scrivi per la tua analista, cura i tuoi dolori, non darci il peso della tua puerile sofferenza nichilista”.
E io smetto.
E poi scrivo.
E non m’importa di stare bene. Non m’importa di stare male.

Scrivere è veleno, è tossicità invertebrata.
Scrivere non risolve il dolore, lo esalta.
Scrivere non avvicina: allontana.
Scrivere è solitudine che ti recinta in altra solitudine.
Non c’è via d’uscita, non c’è strada battuta, non è un universo di autocomprensione.
Scrivere al posto di vivere, se vivere vuol dire costruire ponti con l’Altro. E, di solito noi li facciamo saltare i ponti. Cinquanta e cinquanta di colpe condivise.

Scrivere è mostrare la propria inettitudine alla vita.
Scrivere è isolarsi, disprezzare l’Incontro.
Scrivere è dolore fine a se stesso.
Scrivere è un urlo muto, una bestemmia contro l’Uomo che si maschera da Dio.
Scrivere è un disturbo ossessivo nel deserto, uno stato maniacale.
Scrivere è vomito.
Scrivere è l’eterna solitudine.
Scrivere è vivere coi e per i morti.
E io continuo a scrivere, tra lacrime e sangue.

Giovanni Canadè

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