Paperelle – Un racconto di Giada Zucco

Diamo il benvenuto nella nostra rubrica dei racconti inediti a Giada Zucco

Vi ricordiamo che potete proporre i vostri racconti alla redazione di Biblon scrivendo alla mail g.canade@biblon.it

Buona lettura!

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Marzella (1910-11), Ernst Ludwig Kirchner (1880-1938)

Si chiedeva sempre come fosse possibile far conciliare l’ordinarietà della vita di tutti i giorni con lo straordinario che si ergeva sul mondo.

Un pc portatile su cui scrivere con i piedi immersi nell’acqua del mare.

Un cellulare in grado di telefonare perfino ai parenti in Canada sopra la vetta più alta del paese.

Un delivery qualunque capace di raggiungerla sulla terrazza del grattacielo dove sovente si fermava a guardare le stelle, quando c’erano.

E perché sui balconi delle case in città potessero esserci tavole da surf appese, anche questo si chiedeva. 

E di come un aereo riuscisse a non scontrarsi mai con la luna, di notte, quando tutti i passeggeri a bordo assonnati e annoiati non possono fare i bambini con il naso schiacciato sul finestrino a guardare le distese di coltivazioni di pomodoro, lenticchie e calle bianche.

E quanto sarebbe stato bello se avesse potuto godere dell’altalena al parco giochi, a dieci anni, quella rara domenica ogni due settimane dalla mano di papà. 

E invece lei, l’altalena, poteva averla tutti i giorni. Insieme allo scivolo, il gira gira, il dondolo, la casa sull’albero e il castello a due piani.

Nella sua enorme villa con piscina e dépandance al seguito, la vita trascorreva solitaria e assolata. Tutto restava li, ogni giorno, perfettamente pulito e organizzato da Sevine, una dipendente vietnamita assunta quando aveva solo due mesi. 

Da piccola non aveva amici, da grande non aveva affetti. Da piccola adorava l’altalena, da grande la odiava.

Ci trascorreva delle ore, riparata dal bouganville fucsia che circondava le verdi grate. Nessun rumore, grida o lite poteva distrarla da quel rassicurante su e giù che non aveva tempo e misura. I suoi piedi erano padroni impetuosi del cielo e della terra. Potevano lasciare dei solchi sul terriccio marrone, umido e sporco, con quelle scarpette bianche da comunione, scudo di calzini di cotone sempre troppo costosi per essere destinati ad ornare delle appendici. E poi potevano spiccare il volo, carezzando lievemente i limoni che si ergevano dal lato opposto. A volte ne lasciava cadere qualcuno, dando un colpetto più forte con la caviglia, per poi raccoglierlo e spremerlo nella brocca di vetro sul tavolino, dove il padre adorava fare merenda.

A sua madre non piacevano le scarpe bianche e sporche. A suo padre non piaceva il limone. Lei lo sapeva benissimo, ma non c’era maniera diversa per sentire riecheggiare tra i pioppi, il cloro ed il prato inglese, il suo nome pronunciato per bene, dal momento che l’unica persona interessata alla sua vita (e no, non per una questione d’affetto) era una povera vietnamita che nonostante gli ormai diciotto anni di permanenza in Italia, non aveva ancora imparato bene a pronunciare le lettere d, f, t ed r in certi contesti semantici.

Abitava sulla trentaquattresima a fianco del ristorante “dal pesce alla crocchetta”, un locale in con un titolo ambiguo. Scelta ovvia, spiegava lei a quelle poche figure che accompagnavano le sue notti insonni un paio di volte al mese. “Se un danese e un tedesco decidono di aprire un ristorante italiano in un posto in cui di italiano c’è solo l’inciviltà, cosa potevi aspettarti?”, borbottava loro al telefono, subito dopo aver detto il nome del citofono e il numero della scala.

Non scopava per amore. Non scopava per impeto e libido. Scopava perché aveva bisogno di orgasmi generati dal contatto con mani e sudore, e non solo da un aggeggio vibrante rosa con gli strass e abilitato alla ricarica wireless.

I suoi non scopavano mai. Ne era certa. Passavano gran parte delle loro ferie ad organizzare feste con personalità insipide e fastidiosamente eleganti, a chiamare catering per le giornate dedicate alla griglia, a tirarsi schiaffi nello stanzino dietro il sottoscala. Spesso era il padre ad imbastire questo strano gioco, ma la madre non perdeva occasione di riproporlo con il giardiniere tutti i venerdì mentre il padre si trovava in riunione con quella multinazionale giapponese fallita l’anno scorso. Una volta li aveva beccati a giocare insieme, ma la donna non sembrava affranta e sconvolta come quando il padre le stringeva forte i polsi e la spingeva con le ginocchia verso il muro e la faccia compressa sul comodino. Aveva uno sguardo perso e un respiro affannato, ansimante. E lui non la schiaffeggiava, mai. Le spremeva le natiche come fossero limoni e si mordeva il labbro fino a farlo sanguinare come a interrompere bruscamente flussi di parole e rumori.

 A suo padre non piacevano i limoni.

Non lavorava, campava di rendita. Qualche volta dimenticava perfino di riscuotere puntualmente il canone dei tre appartamenti a lei intestati che aveva deciso di affittare a due soldi ai primi tre richiedenti trovati con un annuncio su un sito schifato dal mondo. Quando lo ricordava, telefonava ai locatari informandoli del fatto che sarebbe passata di lì a poco. “Ce lo hai un dolcetto da offrirmi?”, diceva verso la fine di ogni chiamata, e si sistemava così lo stomaco fino all’ora di cena, perché prediligeva passare di mattina, con la luce del giorno ancora abbastanza chiara da illuminare i volti degli affittuari nelle stanze adibite a soggiorno che aveva accuratamente ridipinto con i colori pastello consigliati sul catalogo “diva e donna” del 2007. Una volta raccolto il gruzzoletto, si spostava sulla via dello shopping che preferiva e si regalava un gelato all’amarena e tre vestiti, sempre dello stesso tipo: manica corta e lungo fino al ginocchio, manica lunga e pantaloncino morbido, giacca e pantalone perché non si sa mai.

Spesso, quando si sentiva particolarmente ispirata, posizionava sulle cosce sempre scoperte e calde il suo portatile blu cobalto comprato a diciotto anni e vagamente funzionante e dava sfogo a quello che il suo professore del liceo aveva definito un talento nascosto ed inespresso che finirà per morire come il mio gatto due settimane fa sotto un camion decorato dalla faccia di Padre Pio. Ogni tanto si sedeva sull’erba del parco di fianco al suo panettiere preferito, scartava una brioche con gocce di cioccolato e posizionava le gambe in modo strano, non curante delle mutande che si intravedevano. Assaporava due o tre morsi della brioche, metteva gli occhiali da vista e iniziava a pigiare in maniera compulsiva i tasti del computer senza legami, pensieri o connessioni. Quando gli occhi le bruciavano e lo stomaco brontolava e dal laghetto non si intravedeva più la sagoma dell’isolotto a fianco, fermava le sue mani e solleticava i tasti con i polpastrelli. Toglieva gli occhiali e, dopo aver strofinato gli occhi con una salviettina alla calendula, rileggeva tutto ciò che aveva scritto, compiacendosene. Poi, con naturalezza e persuasione, selezionava ogni parola e premeva il tasto canc fino a farsi accecare del colore bianco del foglio digitale.

Non voleva scrivere per vivere. Delle volte, in realtà, non voleva nemmeno vivere.

Con i suoi appigli duri si trascinava agilmente da un capo all’altro della città, cronometrandosi, con una media di tre volte a settimana. Giocava a sfidare la sorte e la fortuna, e come una moderna donna di Neanderthal, si immaginava bloccata in un mondo in cui la ruota era rimasta la prima e l’ultima invenzione più grande. Di legno. Protesi in legno.

E se fosse stato questo, il suo destino?

L’intervento glielo avevano fissato almeno tre anni prima, ma per una serie di imprevisti aveva sempre dovuto rimandare. In ordine, non per importanza, era morto il padre di infarto, Edoardo l’aveva lasciata, era stata sfrattata e aveva dovuto cercare un nuovo appartamento con tutti i comfort del caso, perché i suoi appartamenti erano troppo piccoli e scomodi. Convivere con quel disagio come fosse stato un problema di poco conto era una sorta di quotidiana procedura che aveva ormai appreso bene. 

Il motivo dello sfratto non lo aveva mai capito. Le dinamiche dell’incidente, nemmeno. 

In maggio, il prato in fiore emanava profumi sparsi di narciso, margherite, erba appena tagliata e rose bianche. Il respiro si accorciava e si dimenava tra le pareti della trachea, troppo strette per contenere tutto quell’entusiasmo ossigenato. Lei correva e si rotolava fino a non averne più. Bob, cosi chiamavano il giardiniere, faceva sempre un ottimo lavoro. Nonostante le mani grandi e ingombranti, le spalle troppo larghe e gli scarponi rotti che gli impedivano una deambulazione simile a quella di un uomo, possedeva l’eleganza dei gesti ogni qual volta si avvicinava ad un fiore. Le forbici e i decespugliatori sembravano pennelli morbidi e piccoli, rei di tutte quelle irriproducibili sfumature di colore che tappezzavano il cortile. Lei adorava dirglielo, sempre, quanto fosse bravo. Quando le lezioni di musica terminavano prima del calar del sole, si catapultava in giardino per farsi raccontare delle storie. Di come l’Eucalipto fosse stato importato in Europa, di come Monet avesse speso anni della sua vita a dipingere le stesse identiche ninfee, di come il girasole non fosse solo un fiore. Improvvisamente, da quelle rudi labbra circondate da irto e corposo pelo, fuoriuscivano melodie della natura. Ne era affascinata, troppo. Tanto che un giorno decise di farglielo sapere. Con un istinto che non sapeva di possedere, tolse la cesoia dalla sua mano nel bel mezzo di una digressione sulle querce da sughero. Poi, spingendo verso l’esterno, allargò il pugno con le dita e portò il palmo di Bob sulla sua fanciullesca terza di seno. Aveva un reggiseno con i cuori rosa e le stelline blu. Faceva davvero schifo, ma Bob sembrò non farci caso, e con impudicizia immerse le dita sporche e sudate sotto ai ferretti del balconcino, per accertarsi della corposità di quelle sporgenze così simili a quelle della madre. Strinse quelle acerbità costrette nell’imbottitura e strizzò così forte che il capezzolo scivolò via dietro l’indice, arrossato e gonfio, e la fece gemere di dolore e piacere. Come risvegliandosi da un sogno confuso, Bob ritirò indietro la mano e la fissò per degli interminabili secondi, prima di spingerla indietro pronunciando vaghe parole di disprezzo. Lei lo fissò, frastornata, e come un toro durante una corrida puntò di nuovo quella mano soffermatasi ora sulle foglie di un iris. Ma il panno rosso si spostò. Bob, si spostò. Con fare timoroso e infastidito, si diresse verso le scalette che portavano alla porta a vetro vicina al parcheggio dove stava il suo pick-up. Lei lo inseguì urlante e tentò di aggrapparsi alla sua schiena, ma lui voltandosi fece un movimento cosi brusco con le spalle che la urtò e rimbalzò indietro battendo le ginocchia sul corrimano. 

Ciò che venne dopo fu un crescendo di immagini. Scale di marmo bianco piene di sangue rosso, genitori urlanti, ambulanza, ossa rotte, bulloni di ferro, “mi dispiace bisogna aspettare”, “potrebbe essere un’infezione post operatoria”, “dobbiamo amputare”, protesi. 

Di legno. 

Quel legno dei pioppi e dei cipressi, che tanto era stato decantato e raccontato, ora l’accompagnava da sempre. La aiutava a condurre il cammino. La separazione, il divorzio, i decessi, i finti orgasmi. Come radici, quelle gambe avevano dovuto sopportare il peso di tutti i suoi fallimenti, la pesantezza di tutti i suoi ricordi, la pioggia di tutte le sue lacrime amare. Acide, come succo di limone.

Quando i proprietari della villa da lui tanto curata accorsero trovando la ragazzina a terra, con le gambe storte e le urla soffocate, Bob farfugliò qualcosa nel tentativo di dare una spiegazione, invano. La donna che lo aveva sempre guardato con occhi profondi e iniettati di passione, adesso giaceva li inerme, interrogativa, delusa. 

Non tornò mai più in quella casa. 

E nemmeno la madre, fu più la stessa. 

Un giorno decise addirittura di eliminare qualunque elemento contenesse fiori o foglie con un decespugliatore comprato a buon prezzo una volta che in paese era stata organizzata un’asta di beneficenza. A tutte le rose erano state mozzate le teste. Si ergevano tra i cespugli file interminabili di corpi esili e spinosi che non avevano una fine, nessun viso di petali a rendere giustizia a quelle altezze protese nel cielo. I frutti cadevano ciclicamente per terra e non venivano colti, tanto che nel giro di qualche mese l’oasi di pace si trasformò in un purgatorio moderno. Polpe arancioni coloravano la terra secca, con il prato inglese ormai deciso a cambiare nazionalità. Insetti da tutti i lati banchettavano indisturbati in quella vegetale scena del crimine, tra corolle rinsecchite e semi prosciugati dall’arsura del sole. La stessa Sevine, che aveva in un primo momento tentato di preservare il cortiletto e le piante in vaso vicino al porticato, iniziò a manifestare un disagio tale per cui abbandonò la sua camera una notte che pioveva, ad agosto, senza riscuotere lo stipendio e lasciando un biglietto ingiallito e freddo. “Non ho fatto in tempo a svuotare la lavatrice. Vado a vivere in Perù con Oscar”.  

Ogni cosa stava morendo, lentamente, in un timelapse di decadenza e caducità che le ricordava tanto Lullaby dei Cure. 

Una ninnananna di angoscia. Una culla di dolore.

Quella canzone l’aveva sentita in macchina con Bob un giorno che si era offerto di accompagnarla da Sabrina. 

“Ti piace questa canzone?” aveva chiesto lui, mentre la strada inghiottiva l’auto verniciata da poco.

“No. È scialba” aveva risposto lei, percependo i succhi gastrici delle curve che lui domava senza preoccuparsi ad una velocità esageratamente sostenuta.

 Su zampe a righe bianche e rosa arriva l’uomo ragno” le aveva risposto, prima di rallentare verso l’intestino alla porta del cumulo di case che si ergeva di fronte.

“Sabrina abita più avanti”, disse lei dopo qualche minuto di silenzio, senza rispondere a ciò che le era stato detto. “Puoi lasciarmi qui, sei stato gentile”. Scese dalla macchina e lasciò dietro sé lo sfintere del paese, un cartello con scritto “Benvenuti- Bienvenidos-Welcome”.  

Come un distillato alle erbe, quella melodia bruciava in gola tutte le volte che pensava a quella scena affacciandosi dalla porta a vetro che dava sull’ormai deteriorato giardino. È troppo tardi per scappare o accendere la luce.

Si trasferì dai nonni qualche mese dopo, per evitare di sopportare ancora una volta la vista di tutti quei messaggi mortiferi che si ergevano dinanzi a lei. Il nonno la aiutava a salire sul pullman per scuola tutte le mattine, mentre all’uscita l’autista del minibus si premurava di conservarle il posto più comodo. Non amava particolarmente tutte quelle attenzioni, la facevano sentire malata ancor più di quanto non lo fosse già. Ma la storia della piccoletta con la protuberanza di legno faceva un po’ pena a tutti, e lei lo sapeva bene. 

Fu solo dopo un paio d’anni che il padre, dopo aver trovato delle lettere mai spedite scritte dalla moglie ed indirizzate a Bob, decise di vendere quel podere e trasferirsi insieme alla famiglia nel Nord Europa.

“L’aria fresca ci farà bene”, disse, mentre affidava migliaia di euro al suo amico finanziere William per investirli in monolocali e automobili d’epoca.

Nel bel mezzo delle sue riflessioni davanti ad un bicchiere di tè freddo al limone, il telefono squillò ricoprendo di onde e sgomento il semivuoto andito dalle pareti blu. 

Due quadri ispirati al post-impressionismo, un vaso di terracotta avulso dal contesto, un tavolino bianco e turchese senza sedie intorno.

“Pronto?”

“Stava aspettando questa chiamata, non è vero?”

“Io.. Non saprei. Lei chi è?”

“Sono la dottoressa Bernadoni. Abbiamo le protesi. Qui, per lei. Sarà la prima a testarle, ci crede? Iniziamo con la fase pre terapeutica giovedì. Arrivi puntuale.”

Che cognome strano era Bernadoni, chissà di che origine.

Assurdo, non era legale telefonare con preavviso inesistente.

E poi, l’aereo sarebbe costato parecchio. Maledetto il giorno in cui aveva deciso di restare in quella città a meno venti gradi e con altitudine incerta.

Perché non aveva mai messo delle sedie intorno al tavolino?

Troppi pensieri ed interrogativi inutili si affollavano nel palco del teatrino messo su dalla sua mente.

Prese la giacca poggiata sullo schienale del divano e scese giù facendo le scale. 

Scivolò, si rialzò. Niente l’avrebbe stancata.

Arrivò vicino al ponte che collegava la Red-house street a Yellow park. Guardò il suo riflesso nello specchio d’acqua verde sotto alle sue scarpe. 

Pianse.

(c) 2021 Giada Zucco

Giada Zucco nasce nel 1994 a Catanzaro. Ha studiato Biologia. Ama gli animali ed il mondo forense, sì avvicina alla scrittura per intima necessità. Scrive racconti, ma in realtà vorrebbe pubblicare un romanzo.

 

 

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