Polaroid – Un racconto inedito di Edelweiss Ripoli

#gliIneditidiBiblon è una rubrica dedicata alla pubblicazione di racconti inediti. Per avere info e per inviarci i vostri scritti la mail è g.canade@biblon.it 

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(Escalier, Jean-Claude Götting)

Il succo di frutta finisce sempre sul ripiano più alto del frigo. E io lo voglio. Ho sete. Prendo il rialzo di legno che è sotto al tavolo e che mi serve per appoggiarci i piedi quando mangio e lo sposto sotto al frigo. Salgo. Scendo e richiudo il frigo. Rimetto il rialzo sotto al tavolo. Verso. Bevo. Lo verso tutto.

Le ho scattato millecentoventicinque foto più una. Quella che quando le ho detto: «Guardami» lei ha risposto: «Questa è l’ultima».

L’ho appiccicata con lo scotch sullo specchio del lavabo. Ogni volta che lavo i denti sto lì a studiarmela.

Tutte le altre le ho appese per casa. Mezzi sorrisi, bocca aperta, braccia conserte, lunghe lungo i fianchi, capelli corti. In jeans. In costume. Tubino nero con le spalle scoperte. Nuda nel letto. Col plaid sul divano.

Poi, quel giorno sulla neve. Con quella luce gialla e malinconica delle giornate che stanno per finire.

A quest’ora il riverbero del sole schiaccia luce sulle finestre del palazzo di fronte che me la butta dentro casa. Tiro le tende.

Bevo ancora del succo.

Oggi, ho staccato la foto dallo specchio e l’ho accostata a tutte le altre. Cercavo un dettaglio: la postura, l’espressione, le mani. L’intenzione. La volontà o, forse, il coraggio.

Non voleva alzarsi, quella mattina. Non le importava di sciare. Eppure, essere lì era stato un suo desiderio.

Le sopracciglia erano più alte e arrotondate, e gli occhi un po’ strizzati. E le labbra strette come se trattenessero parole che poi, però, quando le ho chiesto: «Cosa vuol dire?», Valeria ha liberato nell’aria: «Che ti odio».

Al corso di fotografia dicevano che era preferibile variare spesso il soggetto delle foto.

Io mi sono iscritto per lei. Averla per sempre. L’ho pensato dalla prima volta che l’ho vista. Insieme al timore, al dolore. Come se già sapessi.

Lei preferiva gli scatti che le facevo di nascosto. Diceva di sé, rivedendosi, che la spontaneità dei movimenti la rendeva autentica. Di tutta quell’autenticità voleva sempre una copia, che poi conservava in un piccolo fly case rettangolare in cui, da ragazza, mi aveva raccontato, nascondeva le lettere che scriveva a se stessa. E che erano ancora là. Parole scritte e mai rilette.

Valeria legge e rilegge le parole di molti. Mai le sue però.

«Finirei per correggermi» diceva. «Non sarei più io.»

«Sei sempre tu.»

«No. Sarei come le tue foto in posa.»

Le foto in posa mi davano la certezza che, almeno per un momento della giornata, lei mi guardasse.

«Ti guardo sempre» mi ripeteva lei continuamente. Ma io non le credevo.

«Sono nano.»

«Lo so.»

«E il tuo amore mi fa sentire mediocre.»

«Lasciami allora.»

«Lasciami tu.»

Alla fine l’ha fatto. Siamo rientrati in albergo, ha preparato le valigie e mi ha detto che una volta a casa ognuno avrebbe preso la sua strada.

«Che strada devo prendere senza di te, eh, Valeria?»

«Quella che ti pare.»

Mi ha guardato come un rifiuto in putrefazione e ha detto che mi aspettava in macchina.

Sono nano e zoppo e ho passato tutto il tempo della nostra storia a chiedermi e a chiederle perché stesse con me.

«Non lo so.»

«Non sai se mi ami?»

«Ti amo. Ti amo. Ti amo. Cosa vuol dire: Ti amo? Tu lo sai?»

«Sì. Vuol dire che non posso vivere senza di te.»

«Questa è dipendenza, Vincenzo. Dipendenza.»

«Bene. Allora io dipendo da te.»

«Be’, io no.»

«Lasciami allora.»

«Prima o poi.»

«E perché mi lascerai?»

«Perché non sarò più me stessa.»

«E chi sarai?»

«Una che ti sopporta e basta.»

Appena in macchina, lei ha ingranato la prima ed è partita. Avevo la macchina fotografica appesa al collo e l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era che volevo avere una sua ultima foto. In posa. Dopo un’ora di viaggio gliel’ho chiesto.

«Tu sei nano e zoppo dentro, Vincenzo. È questo il tuo problema.»

«E il tuo qual è?»

«Tu.»

«Ma ormai mi hai lasciato.»

«Sì.»

«Mi hai lasciato?»

«Sì. Sì.»

«Davvero?»

Ha frenato di colpo. Ha aperto lo sportello di scatto, è scesa ed è venuta ad aprire il mio, di sportello. Mi ha tirato giù dal cordoncino della macchina fotografica e ha detto: «Dove? Qui?» Si è spostata di qualche metro: «O qui?»

L’ho fatta mettere in ginocchio, mi sono tolto le scarpe e gliele ho incastrate sotto le ginocchia. Nana e zoppa, come me. Mi ha guardato e ho scattato.

polaroid (c) 2019 Edelweiss Ripoli

Edelweiss Ripoli, nata a Roma nel 1982, è una farmacista. Vive a Rende, Cosenza. Fa parte della redazione di Risme. Ha pubblicato racconti brevi e lunghi. Nel 2016 partecipa a 8*8 e, nel 2017, pubblica il suo primo romanzo Libere per l’Erudita Editore, marchio della Giulio Perrone Editore.

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