Se stasera sono qui – Un racconto di Renzo Favaron

Tornano, dopo un po’ di tempo, i Racconti Inediti di Biblon.

In questi mesi la Redazione ha letto molti dei vostri lavori e ne approfitta per ringraziarvi dell’attenzione che ci state dedicando.

Continuate a inviarci le vostre proposte alla mail g.canade@biblon.it

In questa occasione vi proponiamo un racconto crepuscolare di Renzo Favaron.

Renzo ci invia una sua brevissima presentazione: “Ho pubblicato alcune raccolte di poesia in lingua e in dialetto. Sono autore di novelle e romanzi brevi (che, forse, sono la stessa cosa). Collaboro con lit-blog che si occupano di poesia e narrativa.”

Buona lettura!

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SAXOPHONIST 2 — PALETTE KNIFE Oil Painting On Canvas By Leonid Afremov https://afremov.com/it/saxophonist-palette-knife-oil-painting-on-canvas-by-leonid-afremov-size-30-x36.html

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Parte o non parte questo treno? Ormai è da più di dieci minuti che è fermo. Almeno fosse salito qualche passeggero o mi avessero detto che potevo scendere per qualche minuto. Niente di niente, invece. Proprio ora, sì, ora che non so più cosa fare e vado su e giù e penso, chissà perché gli uomini quando credono di aver raggiunto l’equilibrio si ritrovano nella situazione opposta, occupati con qualcosa che li mette in uno stato di agitazione e di inquietudine. Probabilmente è arrivato il momento di dire che non posso più tornare indietro, seppure so che non proverò più la gioia di sentire un’altra volta proferire il suo nome. Un tempo, quando mi trovavo in una situazione simile, avrei preso lo strumento e mi sarei messo a improvvisare. Era proprio in questi momenti che riuscivo a esprimere le cose che sentivo, come se fossi stato più vicino a me stesso e allo stato d’animo che aveva partorito gli accordi sui cui improvvisavo. Senza rendermene conto, automaticamente quasi, richiamavo più con la mente che non con lo strumento Body and Soul e dopo un accenno a questa canzone mi lasciavo andare come alla deriva. Di solito davanti a un pubblico non riuscivo mai a trovare la disposizione giusta, quello stato d’animo che invece mi pervadeva quando ero chiuso in una stanza e non avevo nessuno intorno. Sì, è vero, solo nell’arte di torturarmi ho raggiunto un livello artistico sempre più alto. Nell’arte di torturarmi, così come in quella di umiliarmi. Comunque, l’umiliazione più cocente l’ho subita dall’uomo a cui sto portando un fiore sulla tomba, un fiore… non ha importanza. L’odio che provavo per lui, ora non è altro che l’odio che provo per me. Mentirei tuttavia se dicessi che non c’è mai stato in me il desiderio di fargli ingoiare il sax o di fracassare le sue labbra, così che non potessero più avere la stessa sensibilità. Sì, per lui ho concepito un odio feroce, a dir poco… E questo in seguito a un cutting-contest, a cui per altro fui io dare la stura. Con ogni probabilità era proprio quello che si aspettava, poiché mi limitai a pungolarlo con una canzone in stile Tin Pan Alley e lui di rimando, con la massima naturalezza, sospirò un attimo, quasi prendendosela comoda, finché mi ritrovai sulla strada, stordito e incapace di reagire davanti al suo sassofono contralto. Non so come accadesse, ma non appena soffiava dentro il suo strumento, lui si trasformava, di colpo si dimostrava quel cavallo di razza che la sua mise non lasciava assolutamente immaginare, anzi. In contrasto con lo stile hipster, era uno che non curava in alcun modo l’aspetto della propria persona, al punto che non l’ho mai visto una volta con qualcosa che non fosse da sistemare. Aveva impresse le stigmate del bohémien suo malgrado, per nascita e non perconformismo all’ambiente dei musicisti. Il suo rifiuto del perbenismo, era il rifiuto di un uomo che cercava con ogni mezzo di ottenere il massimo da se stesso e dal suo strumento, il quale, a quanto so, già a undici anni era diventato il suo unico pungolo, più importante di tutti gli altri. Senza il sax non sarebbe stato che un uomo qualunque, per questo esisteva solo per difendersi da tutto ciò che poteva risultare d’ostacolo o anche solo di minimo disturbo al suo proposito, già a undici anni preciso, di fare il musicista. Ecco, credo proprio che non sarei qui a parlare tra me e me, se avessi avuto anche solo la minima parte della sua carica spirituale, che era enorme. Quasi sicuramente lui cercava la verità, mentre per me la musica non era vita. No, era il tentativo di non morire.

In quanto a mentalità ero in ritardo di almeno una generazione, poiché sapevo cavarmela con i modi, lo swing non mi mancava, però dietro ai modi e allo swing non c’era niente altro. Provo una sensazione di vergogna ad ammetterlo, ma in certi momenti avevo coscienza anche allora di questo, tanto che mi smarrivo. E dopo dieci anni mi rivedo seduto in un cinema con le luci accese, mentre guardo una fila di persone passarmi davanti per uscire, e non ricordo il film che ho appena visto. Mi rivedo una notte cadere per strada ubriaco, rialzarmi, barcollare verso un lampione e pisciarmi sulle scarpe. Mi vedo, ancora di notte, aggirarmi per via Battistini e scegliere le prostitute con cui andare a letto.

Talvolta sentivo gli occhi riempirsi di lacrime, ma più che dolore provavo collera verso di me.

Piove. Una pioggia fine che cade sulle case, sugli alberi, sulle tombe. Piove e io ho sonno, non si respira nello scompartimento, c’è odore di ammoniaca e sono così solo, come se il resto del mondo fosse andato a casa di proposito lasciandomi nel buio. Mi manca la sua risata. Dio, mi manca la pacca che non smetteva mai di darmi sulla spalla mentre suonavo. «Puoi fare meglio,» diceva poi d’un soffio ‒ e tutto il mio corpo tremava dal desiderio di schiaffeggiare il suo viso. Sì, è vero, aveva il controllo della situazione e lo sapeva. E non appena io scivolavo nell’ordinarietà, lui me lo faceva notare. A volte, aggiungeva: «Non c’avere vergogna.» Una parola… anche se avrei dovuto ringraziarlo; mi incoraggiava a non accontentarmi. Oggi lo so, quando è ormai tardi. Ero poco. O meglio: lui era molto. Almeno, uno che ce l’avrebbe sempre fatta, non potevo fare a meno di pensare; tanto che invidiavo il suo modo di prepararsi, che non era semplice, ma… non ha importanza. Zitto zitto, ricordo, si chiudeva in camera e di lì non usciva se prima non aveva mandato a memoria tutto quello che doveva imparare, dopodiché lasciava la casa e si infilava da qualche parte, di preferenza in un bar, ordinava un liquore, a cui aggiungeva un caffè amaro, del quale, se il brano risultava culminare con una cadenza di sax alto solo, prendeva una seconda tazzina. Se poi constatava di trovarsi nello stato di grazia, usciva dal locale e andava a provare il brano, lo sviluppava, lo enfiava, se così si può dire, e allora procedeva di volata, la sua musica assomigliava a un rubinetto aperto. Quando aveva finito di provare, si accendeva una sigaretta con gesto rituale, si metteva a pensare davanti a un diagramma da lui costruito e, poi, se gli sembrava di aver tirato fuori le scale che si adattavano a un’idea che gli era venuta in mente, andava a prendere un altro bicchiere di liquore, che beveva lentamente, a piccoli sorsi e, tra un sorso e l’altro, fischiava tra sé le parti che riecheggiavano non solo in testa, ma in tutto il corpo. Poi il giorno dopo si riempiva di dolci, mangiava bignè e mousse a crepapelle, e ‒ sempre tra sé ‒ assaporava attraverso i sensi e il cervello altrui quanto e come il brano potesse appassionare, meravigliare, talvolta anche dare fastidio. Originale o meno che fosse, più pensava che il brano avrebbe suscitato il plauso di critici, musicisti e via discorrendo, più grande era la sua salute. Viceversa, inopinatamente e purtroppo ciclicamente, restava giorni senza mangiare, e non tanto per il mangiare, ma per la paura di prendere in mano forchetta e coltello, che non guardava come una persona guarda normalmente una forchetta e un coltello, bensì con il timore che avrebbe cominciato a colpire.

Prima di entrare in confidenza, se pensavo male di lui, ricordo che stavo bene. Cinicamente. In seguito mi vergognai di questo, anche se non passava giorno senza che mi domandassi: «Cos’ha, che io non ho?» La domanda era dettata dall’invidia e da una divergenza semplice e radicale: io speravo continuamente di coglierlo in fallo, senza per altro mai riuscirci una volta; Gas, invece, quando mi coglieva in fallo, si doleva per me.

Naturalmente, c’era molto altro.

Ad esempio, per riferirsi a se stesso, usava la terza persona: «Gas se ne va», diceva per porre fine a una conversazione e si allontanava a passettini, come sulle mani. Era cortese come sempre, e la sua cortesia caratterizzata da un certo elegante disprezzo. Ma in un modo o nell’altro sembrava più giovane, più ragazzino, più vulnerabile.

Una volta tornò da un’esibizione ubriaco. Era così di cattivo umore che la maggior parte del tempo la passava a letto. Non gli riusciva, tanto per dire, neanche il pensare di riscaldare qualcosa di già cucinato. Il cibo marciva nel frigo, i colori lo stomacavano, imputriditi: rosa, giallo, rossi.

La sua grazia e la sua carica giovanile dov’erano finite? Minate, cancellate da un’emicrania continua, e sempre più forte.

Una sera andai a bussare alla porta di Gas, ma non mi rispose. Allora aprii. Il tanfo disgustoso dell’urina e quello di vino versato mi si mischiarono nel naso. La radio diffondeva La donna cannone con il suo refrain coinvolgente:

                             E con le mani amore, per le mani ti prenderò

                             e senza dire parole nel mio cuore ti porterò…

Due cuccioli di cane mi si strusciavano intorno alle gambe, forse attraverso la vaschetta di plastica sentivano l’odore del pollo fritto. Varcai la soglia. Gas era disteso sul divano, calzava un paio di Camperos e al collo portava una sciarpa che gli avevo regalato una volta che la tosse sembrava volerlo strozzare.  Non ebbi il coraggio di chiamarlo, me ne rimasi immobile vicino al divano cercando di non dare di stomaco. Forse in ogni essere umano c’è un pezzo della nostra esistenza, un’ora, un avvenimento, che se ci diamo la possibilità di cercare, ci dà la conoscenza più essenziale di tutte: che nella nostra vulnerabilità non siamo soli. Abbiamo i nostri pregi, i nostri difetti, perché altri possano riconoscere se stessi attraverso di noi. Ecco, rimasi immobile mentre la voce di Francesco De Gregori riempiva la camera e i cuccioli mi saltellavano intorno sempre più impazienti e petulanti.

Alla fine non posai la vaschetta di plastica da nessuna parte, perché non riuscivo a credere che fosse qualcuno che conoscevo, non riuscivo a credere che fosse il musicista che si doleva per me.   

Quando tornai a casa, presi il sax e gli strappai tutte le chiavi. Poi mangiai il pollo fritto e me ne andai via. Al nord. Lontano da lui e da un ambiente in cui non ero mai stato più di una spalla confinata sullo sfondo.

Renzo Favaron

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