Serpenti e Malerba

Pubblicato originariamente sul defunto (almeno per ora) Antecritica, blog di “Letteratura, cultura, cose noiose” a noi molto caro, l’articolo che vi presentiamo, scritto da Francesco Corigliano, che di Antecritica è l’ideatore, riflette intorno a un romanzo e un autore che a noi di Biblon piace molto. Stiamo parlando de “Il serpente” di Luigi Malerba.
Buona (ri)lettura.

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Lo sperimentalismo è interessante anche perché impone nuovi metri di valutazione. Prendiamo Il serpente, di Malerba.

A proposito di questo autore si parla spesso di tendenza giallistica. Beh, può anche essere – nel romanzo si può forse parlare di indagine, dal momento che il protagonista tenta di individuare nelle persone attorno a sé, e nel mondo, delle corrispondenze che spieghino certi fatti, certe coincidenze. Commerciante di francobolli, adultero, l’ignoto personaggio principale (nonché narratore) trascina un’esistenza soffocante, immersa nel nulla, cercando di trovare un senso alle cose del mondo – un mondo da cui si sente rifiutato, e che soprattutto rifiuta, aspirando ad una fuga attraverso i cieli, con gli angeli e gli aeroplani.

E la sua indagine, se così la si può definire, si dipana attraverso speculazioni e ragionamenti, è vero. Parlare di giallo, però, a me sembra un po’ una forzatura: un giallo impone sì il mistero, ma anche una certa dose di credibilità conferibile ai fatti narrati. E ne Il serpente questo non accade minimamente.
Il mistero la fa da padrone, sì, ma anche nello stesso atto narrativo, costringendo il lettore a chiedersi continuamente cosa si possa considerare reale – sempre nei termini della finzione – e cosa no. Quei birboni della neoavanguardia ci hanno abituato alla riflessione meta-letteraria, è vero, ma Malerba qui arriva a scardinare totalmente il concetto di sospensione dell’incredulità. Il serpente si legge così, aspettandosi che da un momento all’altro la voce narrante smentisca qualcos’altro, aggiunga particolari, neghi e riaffermi ciò che s’è appena dimostrato falso. È un vortice continuo, atto probabilmente ad esprimere la negatività di fondo della difficile esistenza del protagonista; una vita solitaria, animata solamente da quel serpente che è il sentimento puro, genuino, di repulsione verso ogni cosa. Ma procedendo nella lettura ci si chiede se il processo anti-narrativo faccia da cornice alla vicenda, potenziandone il messaggio esistenziale, o se non sia piuttosto il contrario (o magari entrambe le cose).

Se Malerba voleva distaccarsi rispetto al vecchio concetto di romanzo, beh, c’è riuscito. Peraltro i temi della parola e dell’indicibile sono molto cari al protagonista, che spesso riflette sull’impossibilità di dire, sui linguaggi (specie quello musicale), sulla permanenza della parola scritta e sulla flebilità di quella sonora, volante, trasmessa nell’etere.
Ma l’operazione di Malerba è rischiosa, porta troppe volte il lettore a chiedersi dove si voglia andare a parare, e anche se davvero si voglia andare a parare da qualche parte. Il dolore che scuote il protagonista, il suo senso di isolamento, potrebbero essere soltanto l’ennesima invenzione, l’ennesima finzione di una voce che forse, tutto sommato, non sta descrivendo neanche se stessa.

Gli unici appigli al reale sembrano essere le precise connotazioni geografiche, che dipingono una Roma ingarbugliata e labirintica; i tecnicismi e i termini scientifici, poi, buttati qui e lì dal narratore, contribuiscono ad aprire squarci di credibile concretezza nel narrato. Ma l’impressione di star sospesi in una successione di pensieri liberi – e il protagonista ha proprio un particolare rapporto con i propri pensieri, che spesso si mette a inseguire senza fermarsi – mette in lettore in uno stato di perplessità, quasi di allarme nei confronti del testo.

Il tema di per sé sarebbe anche interessante, e a ben vedere coincide con la tecnica utilizzata: se il protagonista vuole rendersi “più vero” attraverso un rapporto, una relazione che però può essere soltanto fittizia (come sono inventate tante altre cose della sua vita: l’esperienza da soldato, la moglie, i vicini di casa), la contraddizione del “vero x falso = vero” si accorda perfettamente con una narrazione che fa della sua non attendibilità il mezzo per trasmettere un messaggio. Come si diceva, però, il pericolo è quello dell’annullamento del messaggio stesso. A mio parere, il lavoro è riuscito, sebbene si sia appena appena entro i limiti massimi.

Infine, ancora sul tema: scavando un po’ oltre lo strato meta-letterario, la sofferenza dell’esistenza arida è vivo e presente. Addirittura, la disperazione è tale da portare il protagonista a immaginarsi cannibale, pur di dimostrare a se stesso e, magari, al resto del mondo, di avere ancora un senso, una qualifica, che non sia quella di venditore di francobolli solitario, triste, senza scopo. Per la serie, meglio essere orribili che non esser niente.

Francesco Corigliano

(Pubblicato originariamente su Antecritca il 12 maggio 2014)

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