Sette domande a Susanna Schimperna su “L’ultima pagina”

Pochi giorni fa abbiamo pubblicato una recensione a cura di Nazareno Loise a “L’ultima pagina“, un libro di Susanna Schimperna, edito da Iacobelli editore, che abbiamo amato molto.
“L’ultima pagina” è un volume che non si esaurisce dopo una prima lettura, per questo Nazareno ha voluto sottoporre all’autrice alcune domande, al fine di approfondire alcuni aspetti sul tema dell’arte e del suicidio.

Buona lettura!

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Risulta complesso, senza scadere nella retorica o nell’inesatto, disquisire generalisticamente sul suicidio. Troppe variabili, troppe deviazioni, troppe lacrime di cui non si sa nulla. E L’ultima pagina si muove in compagnia di questo assennato rispetto nei confronti della vita, ma sopratutto della morte. Inoltre, ben poco ci sarebbe da aggiungere alla già profonda analisi che hai svolto in merito.

Per questo motivo vorrei porti alcune domande inerenti alla tua personale visione del suicidio.

N –  Credi che, in un certo senso, il suicidio di un artista possa assumere agli occhi corrotti del lettore la valenza di un “sigillo di qualità”, di una sorta di garanzia che certifica la sincerità e la passione estrema nei confronti di un’attività avvertita in maniera così violentemente esacerbata da immolarle addirittura la vita? Oppure il suicidio va considerato come un personalissimo esito che può e non può riguardare una carriera artistica?

S – Sì, occhi corrotti. Che appartengono a lettori corrotti: dal pregiudizio, da schemi mentali ideologici. La corruzione che impedisce di porsi di fronte alle cose e alle persone per quello che queste sono, di guardare la realtà senza incasellarla forzatamente e addirittura preventivamente in qualche categoria psicologica, morale, politica. Così ecco che ad alcuni occhi corrotti gli scrittori suicidi appariranno per questo più stimabili come persone e come artisti, mentre occhi diversamente corrotti vedranno lo scrittore suicida come un fallito e le opere del fallito poco interessanti, certamente autentiche ma incapaci di trasmettere alcunché di illuminato o persino sensato: se il tipo ha finito con l’uccidersi, che possiamo mai imparare da lui? Se il suicidio vada considerato separatamente dalla carriera artistica, non lo so. Credo che il modo in cui si muore non infici né nobiliti le opere prodotte (vale proprio in linea generale) ma anche che non c’è motivo per non tenerne conto.

NSecondo te, è più esatto affermare che un artista può essere anche un suicida o che tutti i suicidi sono, in fondo, degli artisti?

S –  Un artista può essere anche un suicida. E neppure spesso. Ho conosciuto molti artisti innamorati della vita che proprio attraverso la creazione riuscivano a tenere la morte a distanza di sicurezza. Una distanza magari ravvicinata, ma tale da non costituire un pericolo. È più rischioso non essere creativi attivi, ai fini del suicidio. Quanti non si sarebbero uccisi avessero avuto la capacità, la forza o semplicemente l’opportunità di esprimere il loro mondo interiore, di creare?

 

N –  Consideriamo quella che in effetti è l’unica realtà inamovibile di un suicidio: l’abbandono definitivo della vita terrena. In un bellissimo brano contenuto nel suo primo album (Questa sporca vita, Paolo Conte, 1974) Paolo conte canta così:“[…] questa sporca vita/ Che non ha mai pietà e non è mai finita/ Se no che si fa”. Ragionando in questa direzione, il suicida sceglie di lasciar per sempre l’unica cosa certa che ha su questa terra: la vita. Inseriamo, a questo punto, la rimostranza che spesso viene mossa al suicidio, per cui questa vita val la pena di essere vissuta in ogni caso, perché cristianamente considerata un dono o materialisticamente ritenuta un’opportunità.

E allora con quale attitudine spirituale il suicida si priva della vita? Lo fa come si lascia un grande amore non corrisposto o impossibile da vivere come si vuole, o lo fa con sprezzo e noncuranza? Insomma, il suicida si uccide per amore della vita oppure no?

S – Non sempre sono in gioco l’amore o l’odio per la vita. Può esserci un senso di isolamento insopportabile, un distacco emotivo e affettivo – e a volte anche professionale – dall’ambiente, dal mondo intero. Una sensazione atroce, che non ha nulla a che fare con l’avere o meno amici. Una persona che vive in solitudine per scelta può essere infinitamente meno isolata di qualcuno che ci sembra perfettamente inserito nella società. E c’è un altro caso, perfettamente descritto da David Foster Wallace di cui racconto la vita nel libro: «La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme». La “Cosa” è la depressione, o infelicità estrema, o disperazione: dolore psichico qualunque nome vogliamo dargli. Mi accorgo che nei due esempi che ho fatto ho usato gelo e fuoco, ghiaccio e fiamme per tentare di descrivere uno stato d’animo. E sì, mi sembrano metafore appropriate.

NSuicidi organizzati, suicidi imprevedibili, suicidi preannunciati e suicidi di protesta. Quali differenze passano fra i casi di Virginia Woolf, di Antonia Pozzi, di Sylvia Plath e di Yukio Mishima? E se ve ne sono, quali le analogie fra questi quattro esempi?

S –  Hai scelto quattro persone che mi sarebbe piaciuto vedere insieme a conversare, magari anche a convivere o lavorare a un progetto comune. Penso che Virginia non avrebbe sopportato Mishima ma sarebbe stata affascinata da Antonia, che Sylvia si sarebbe innamorata di Mishima e avrebbe trovato argomenti per ridere insieme ad Virginia. Questo è quello a cui mi fanno pensare, questi quattro nomi in collegamento tra loro. Aggiungerei che Woolf e Plath sono state sicuramente investigatrici degli stessi territori dell’anima, e da un certo punto in poi inquiline di uno stesso inferno, avvolte nelle stesse fiamme, per dirla con Wallace.

NE allora, un suicidio è sempre un progetto? È una sindrome alimentata per anni, con macabra o disperata dovizia, da dolori recenti e dolori remoti? L’ultima pagina di una vita è la prima ad essere scritta?

S –  Penso di no. O forse lo spero. Si ricorre molto e da molto tempo alla nozione di “inconscio” quando non sappiamo spiegare le nostre o altrui dinamiche e motivazioni. Mi seccherebbe parlare di inconscio anch’io, ma certo tra opere, appunti, diari e conversazioni, in tutti gli scrittori di cui ho parlato, e anche nei tanti altri che alla fine non sono stati ricompresi nel libro, si trovano non pochi pensieri-elucubrazioni-richiami al suicidio. Mi domando però se non sia così anche per chi il suicidio non l’ha commesso, se non sia un tema ineludibile. D’altra parte penso che per alcune persone non per tutto l’arco della vita ma da un certo punto in poi il suicidio da riflessione diventi un progetto. “Quando” è cosa che non sapremo mai. Il fatto è che da quel momento in poi il suicidio è un precipitare, qualcosa di più di un vago richiamo o di una possibile ma evitabile scelta.

N –  Quali sono le motivazioni ti hanno spinto a scrivere, non degli scrittori suicidi (giacché a questa domanda rispondi accuratamente nell’introduzione al libro), ma del suicidio nella sua complessità?

S – Il suicidio è qualcosa a cui penso da quando ero piccola. Senza avere avuto alcun suicida tra i parenti o gli amici dei miei. È vero che in casa si parlava di tutto, è vero anche che ero perfettamente consapevole che gli argomenti di cui si parlava in casa fossero tabù per il mondo: niente di più eccitante. Presto ho letto Camus, ho scoperto che era nato nel mio stesso giorno e nel mio stesso mese, mi sono ritrovata davanti quella frase famosa: «Non c’è che un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio». Figuriamoci. Mi sono messa a leggere tutti i suoi libri, mi sono convinta che non fosse morto in un incidente ma suicida. A quell’epoca sì, morire di propria volontà mi appariva nobilitante. Il primo libro che ho scritto, a tredici o quattordici anni, e devo averlo da qualche parte, termina con la protagonista che entra in acqua, nel mare, e cammina col proposito di annegare. Vede qualcuno mentre l’acqua sta per coprirle anche gli occhi e si domanda se quello che vede la salverà. Ora, parlando con te, mi domando se forse più che interessata al suicidio io non sia stata sempre incantata all’idea che in qualunque momento possiamo essere salvati.

NConcludo con una domanda sospesa tra la provocazione e la preghiera: secondo te, il suicidio è un atto di viltà o di coraggio?

S – Non è mai un atto di viltà. Come potrebbe esserlo? La sofferenza delle persone che restano, anche se non la vedrai, la vivi nell’immaginazione, e credo sia atroce. Vai verso l’annullamento eterno di te stesso, oppure verso un’esistenza diversa che ti è del tutto ignota, e nella quale, se sei religioso, pensi che verrai punito. Non dimentichiamo il dolore fisico, poi. Non c’è una delle morti di cui parlo nel libro che sia stata serena. Non so se il suicidio sia sempre un atto di coraggio, ma sono sicura che non sia mai un atto di codardia. Penso però che sia sempre un sogno di libertà.

 

Nazareno Loise

 

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