Un amore: frammenti di un discorso amoroso nel romanzo di Dino Buzzati

In una Milano fumosa dei primi anni Sessanta Antonio Dorigo, architetto quarantanovenne, si innamora di Laide, giovanissima ballerina della Scala che per mantenersi lavora come prostituta. Da subito quello che colpisce è l’irrazionalità di questo amore, che è poi l’irrazionalità di tutti gli amori: Laide è insignificante, a tratti bruttina, non spicca per raffinatezza né per intelletto (pur essendo furbissima e manipolatrice), è insomma una ragazzina come ce ne sono mille e non v’è nessuna ragione oggettiva per cui il protagonista debba innamorarsene. Eppure Dorigo cade letteralmente per lei (nel senso più squisito di “too fall in love”, “tomber amoureux”) e questa caduta è progressiva, inesorabile, rovinosa.  Lo sviluppo della parabola amorosa, l’accrescimento del sentimento per gradi successivi, lo svisceramento – talvolta doloroso, talvolta estatico – di tutte le sue fasi costituiscono forse l’aspetto più straordinario del romanzo. La caduta precipitosa di Dorigo in questo amore a tratti tragico, attraversa fasi di intensità la cui progressione è sfumata magistralmente da Buzzati in una scala di accrescimento graduato che va dall’indifferenza alla disperazione. All’inizio nulla di Laide è neppure minimamente intrigante: i capelli tirati sulla nuca la rendono “trasandata”, i tratti del volto sono “popolareschi e sguaiati”, il naso è “petulante” e anche il sesso con lei non è soddisfacente, tanto che “carezze e baci sembravano formalità burocratiche”, o “copule a pagamento”. [1]Eppure bastano poche pagine, poche sequenze, perché un presentimento inizi ad affiorare timidamente alla coscienza: è il presentimento dell’amore venturo:

“Laide gli aveva lasciato uno strano turbamento […] Come se qualcosa lo avesse toccato dentro. Come se quella ragazza fosse diversa dalle solite. Come se fra loro due dovessero succedere molte altre cose. Come se lui ne fosse uscito differente. […] Come se ci fosse stata una predestinazione. Come quando uno, senza alcun particolare sintomo, ha la sensazione di stare per ammalarsi, ma non sa di cosa né il motivo. Come quando si ode dabbasso il cigolio del cancello e la casa è immensa, ci abitano centinaia di famiglie e all’ingresso è un continuo andirivieni eppure all’improvviso si sa che ad aprire il cancello è stata una persona la quale viene a cercarci.” [2]

Buzzati usa le parole “predestinazione”, “turbamento”. L’amore che sarà è infatti a questo stadio solo intuito, presentito, pronosticato come da un veggente che indovini chi busserà alla sua porta. Interessante è l’utilizzo della parola “sintomo” e del verbo “ammalarsi”: esse costituiscono infatti l’inizio di una sublime métaphore filée sul tema dell’amore come malattia che si estende nell’arco di tutto il romanzo. In questa fase di pre-sentimento i germi dell’amore hanno già attaccato l’organismo dell’ignaro Dorigo, il sistema immunitario è in allerta, anche se lui ancora non ne è ancora pienamente consapevole. La metafora dell’amore come patologia, come virus, ritorna a circa quaranta pagine di distanza: Dorigo ha macinato giorni di dissidi, di turbamento, di gelosie, di ossessioni ed è giunto allo stadio successivo. Dall’amore come presentimento si passa all’amore come consapevolezza:

“D’improvviso si rende conto di quello che forse sapeva già ma finora non ha mai voluto crederci. Come chi da tempo avverte i sintomi inconfondibili di un male orrendo ma ostinatamente riesce a interpretarli in modo da poter continuare la vita come prima ma viene il momento che, per la violenza del dolore, egli si arrende e la verità gli appare dinnanzi limpida e atroce e allora tutto della vita repentinamente cambia senso e le cose più care si allontanano diventando straniere, vacue e repulsive, e inutilmente l’uomo cerca intorno qualcosa a cui attaccarsi per sperare, egli è completamente disarmato e solo, nulla esiste oltre la malattia che lo divora, è qui se mai l’unico suo scampo, di riuscire a liberarsi, oppure di sopportarla almeno, di tenerla a bada, di resistere fino a che l’infezione col tempo esaurisca il suo furore. Ma dall’istante della rivelazione egli si sente trascinare giù verso un buio mai immaginato se non per gli altri e d’ora in ora va precipitando.”

Anche questo passaggio è dominato dalla semantica della malattia: “sintomi”, “male orrendo”, “malattia”, “dolore”, “infezione”.La rivelazione è avvenuta, la malattia lo divora, la caduta ha inizio: Dorigo sta precipitando.

La ricchissima traiettoria amorosa tracciata da Buzzati continua attraversando le fasi dell’attesa, dell’ossessione, della disperazione: una serie di tópoi che non possono non evocare alcune delle figure dell’amore contenute nel saggio Frammenti di un discorso amoroso del semiologo francese Roland Barthes, in cui, come in una sorta di dizionario, l’autore scandaglia tutti i tasselli del lessico amoroso in ordine alfabetico. Fra questi “l’attesa” e in particolare l’attesa della telefonata della persona amata:

“L’attesa è un incantesimo: io ho avuto l’ordine di non muovermi. L’attesa d’una telefonata si va così intessendo di una rete di piccoli divieti, all’infinito, fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto, addirittura di telefonare (per non tenere occupato l’apparecchio); per la stessa ragione io soffro se qualcuno mi telefona; l’idea che di lì a poco dovrò uscire correndo così il rischio di essere assente al momento dell’eventuale chiamata riconfortante, del ritorno della Madre, mi tormenta.”[3]

 

In questa descrizione sarebbe impossibile non rivedere la scena di Antonio che, aspettando la telefonata di Laide in ufficio, mette in atto quella catena di penosi gesti citata da Barthes. Nel timore che il telefono squilli mentre lui è nella stanza del collega Maronni a discutere questioni di lavoro, Dorigo fa appello al suo ingegno e piazza una sedia davanti alla porta per tenerla aperta:

“Fu chiamato di là da Maronni, c’era il Blisa, quello della cartiera, per discutere il progetto del campo sportivo. E se Laide gli avesse telefonato mentre lui era di là? La porta del suo studio era di quelle che si chiudono da sole per una molla a stantuffo. La spalancò mettendo una sedia che tenesse aperto il battente. Anche l’uscio dell’altra stanza lo lasciò semiaperto alle sue spalle, per fortuna non aveva la molla.”[4]

Secondo Roland Barthes l’attesa estenuante della persona amata, o di un suo cenno, come una telefonata o un appuntamento, induce a una manipolazione dell’oggetto d’amore tale che esso diviene irreale: “L’essere che io aspetto non è reale. Come il seno materno per il poppante, io lo creo e lo ricreo continuamente a cominciare dalla mia capacità di amare, a cominciare dal bisogno che io ho di lui: l’altro viene là dove io lo sto aspettando, là dove io l’ho già creato. E, se lui non viene, io lo allucino: l’attesa è un delirio.”[5]Il delirio allucinatorio provocato dall’attesa è scandito da Buzzati dal ticchettio dell’orologio; i minuti scorrono in modo incredibilmente lento, trasformando Laide, l’oggetto dell’attesa, in un essere irreale, la cui esistenza non è più certa:

“Ma esiste Laide? Esiste una ragazza con un nome così buffo? Non è mai esistita. È esistita ma non esiste più. Esiste ma lontana lontanissima le dodici e ventuno l’orologio ha fatto trac adesso finalmente anche lui l’ha sentito. Non la rivedrà mai più. ”[6]

Per Barthes l’attesa costituisce l’elemento identitario stesso dell’innamorato: “Sono innamorato? – Sì, perché sto aspettando. L’altro invece non aspetta mai. […] La fatale identità dell’innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta.[7]

Non è forse questa la condizione dell’innamorato Dorigo, tiranneggiato da Laide che lo fa attendere continuamente? Non è forse nel farsi attendere (secondo Barthes “fare aspettare è la prerogativa costante di qualsiasi potere”[8]) che Laide esercita il proprio dominio su di lui? Emblematica è a questo proposito la scena dell’estenuante attesa di Laide durante una gita nella città di Modena. È mezzogiorno e venti e i due si danno appuntamento per le due e un quarto, un tempo incredibilmente lungo per l’innamorato che subito implora: “Alle due e un quarto? Ti prego però, non farmi aspettare.”[9]La supplica non viene esaudita: Laide lo farà naturalmente attendere più del dovuto, prolungando un’agonia che si consuma faticosamente tra un pasto a base di paillard, un cameriere insofferente e il caldo di una piazza modenese:

“Le una e tre quarti. Ancora mezz’ora. E non aveva neanche un giornale da leggere. […] Il cameriere portò il resto, erano le due meno dieci, si alzò impaziente. Vide in uno specchio la propria faccia, brutta, tirata. […] Alle due e cinque era nella piazza. […] Le due e dodici, le due e tredici. Finalmente! Tra due minuti lei sarebbe ricomparsa, sarebbe venuta via con lui, al suo fianco, nel sole, loro due soli sull’autostrada, per la prima volta una specie di gita insieme, e nessuno poteva rompere le scatole. […]  Le due e diciassette. Da un momento all’altro.  […] Le due e venticinque, dieci minuti di ritardo. […] Fu proprio in uno di questi momenti che l’attesa spasmodica cede per stanchezza fisica e gli occhi stanchi non guardano più intorno, che comparve la motoretta di Marcello con la Laide sul seggiolino. “Sono le tre meno venti” disse Antonio. “Be’ adesso sono qui” fece lei, sicura di sé, senza raccogliere.”[10]

E infine giunge la catastrofe amorosa, quella che Roland Barthes definisce “situazione estrema nella quale il soggetto vive conscio del fatto che essa finirà per distruggerlo irrimediabilmente.”[11]Ed è precisamente questa la condizione in cui viene a trovarsi Dorigo nelle ultime pagine del romanzo: soffocato dal pianto al pensiero di Laide, si raggomitola nella disperazione, nella certezza inequivocabile della sua distruzione, in quell’ “ora decisiva della vita che è come un inferno”[12]. È quella che Barthes considera disperazione violenta: “un bel giorno mi chiudo nella mia stanza e scoppio in lacrime: sono in balia di una forza che mi soverchia, asfissiato dal dolore; il mio corpo si irrigidisce e si contrae: come in un lampo, freddo e tagliente, io vedo la distruzione a cui sono condannato.”[13]Le parole di Buzzati per descrivere lo stato del suo protagonista si riflettono come in un gioco di specchi in quelle di Barthes: Dorigo è “gettato a terra, calpestato, devastato di dentro e di fuori, abbandonato nel fango, espulso a calci dalla sala.”[14]Dentro di lui si apre uno squarcio e da esso “un convulso fiume di lacrime esce.”[15]L’annichilimento è totale, la strage compiuta, definitiva. L’angoscia è “un’onda nera che lo solleva e lo sprofonda a singhiozzi”[16]È questa una delle immagini più strazianti dell’architetto che dilaniato dal meschino epilogo si chiede: “dov’è lei in questo momento?”[17]Un amaro sconforto chiude una delle ultime scene del romanzo, mentre Dorigo realizza che “l’infelicità lo invadeva con velocità selvaggia in ogni parte delle viscere.”[18]

 

Aida Marrella è laureata in Letterature Straniere all’università di Roma Tre.
Vive a Parigi dove lavora come insegnante e traduttrice.

 

[1]D. Buzzati, Un Amore, Mondadori, Milano, 2015, p. 33.

[2]Idem, p. 37.

[3]R. Barthes, Frammenti di un Discorso Amoroso, Einaudi, Torino, 2014, p. 41.

[4]D. Buzzati, Un Amore, Mondadori, Milano, 2015, p. 71.

[5]R. Barthes, Frammenti di un Discorso Amoroso, Einaudi, Torino, 2014, p. 41.

[6]D. Buzzati, Un Amore, Mondadori, Milano, 2015, p. 72.

[7]R. Barthes, Frammenti di un Discorso Amoroso, Einaudi, Torino, 2014, p. 42.

[8]Idem.

[9]D. Buzzati, Un Amore, Mondadori, Milano, 2015, p. 123.

[10]Ibidem, pp. 125-129.

[11]R. Barthes, Frammenti di un Discorso Amoroso, Einaudi, Torino, 2014, p. 45.

[12]D. Buzzati, Un Amore, Mondadori, Milano, 2015, p. 240.

[13]R. Barthes, Frammenti di un Discorso Amoroso, Einaudi, Torino, 2014, p. 45.

[14]D. Buzzati, Un Amore, Mondadori, Milano, 2015, p. 240.

[15]Ibidem.

[16]Ibidem.

[17]Ibidem.

[18]D. Buzzati, Un Amore, Mondadori, Milano, 2015, p. 256.

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