Acrobazie — Storie brevi e brevissime di Alessandro Trasciatti

«Sterilmente ricerco da anni il mio luogo più integro e segreto, il mio centro nascosto, ma non trovo che angoli parziali e periferici». 

Acrobazie. Storie brevi e brevissime (Il ramo e la foglia Edizioni, 2021, pp.80) di Alessandro Trasciatti è una raccolta di frammenti, «minutaglia di schegge scritte nell’arco di vent’anni», intima e riuscita. L’autore si definisce uno «scrittore intermittente» alla ricerca di un «lettore intermittente» e premette, con una qualche preoccupazione, che questo «non diventerà mai un libro compiuto», mettendo le mani avanti, ma a torto, perché al termine della lettura si forma un’immagine unitaria che sorprende come quando si riconosce, allontanandosi progressivamente, una forma sgranata ma piacevole a effetto pixel. Grazie a un efficace ordinamento dei (micro)testi, l’autore riesce a superare la frammentarietà e a trovare un senso, cioè una direzione, che procede dal particolare all’universale, dalla materia allo spirito, procedimento reso ancora più intimo dall’uso della seconda persona, una lei che può essere di tutti. 

Si inizia dalla fisicità degli spazi, dai rifugi segreti, dalla «stanza del computer» alla tasca del pastrano che diventa gorgo di ricordi, alle auto come «alcove a quattro ruote […] veicoli di passioni sofferte e raggomitolate, con il cambio e il freno a mano che intralciavano i movimenti», con un uso felice della tecnica della lista. E questi luoghi sono colmi di quelle buone cose di pessimo gusto che rappresentano la malta della memoria, «biglietti del treno, scontrini fiscali, cerini […] bottiglie di liquore, etichette di vini, […] mignon, penne e pennarelli, squadre, viti e dadi erranti, piccoli ordigni fuori uso in attesa di riparazione»; ma anche oggetti inesistenti, «girarrosti che, ruotando, avrebbero innescato carillon, mangianastri anatomici che avrebbero aderito alla tua pelle, allietando col contatto rotule e malleoli, cartilagini e capi articolari»; e poi di parole rare, pescate dalla lenza buttata a vuoto nei libri, che fanno da pendant al reliquiario degli oggetti, «clavicordo, virginale, serpentone, tiorba, portativo». E come un fantasma, la voce narrante si aggira nella «giungla domestica», a «intavolare dispute accademiche coi termosifoni della casa», ad accanirsi «contro la superficialità degli armadi, molestare le poltroncine imbottite, bere vin brûlé ed arringare i lampadari».

Nella seconda parte del libro, la dimensione fisica diventa il trampolino che proietta verso l’immateriale, verso i suoi universali, le «paure informi», le più terribili, la vecchiaia, la morte. «Le mie notti non sono colorate. Nere come pece si allineano pesanti l’una accanto all’altra». E qui la piana e gustosa dimensione del memoir, placida ma intrisa di una lieve e soffusa malinconia, si trasforma in bestiario degli incubi più spaventosi: è la sezione «Casi clinici e onirici», a nostro avviso la più riuscita. Qui la paura della caduta — casum, in latino, vuol dire appunto caduta —, diventa il fil rouge, la chiave di interpretazione della realtà, dove gli oggetti perdono le loro funzioni e diventano scheletri spaventosi: «la mia bicicletta aveva un fanalino fioco che non illuminava nemmeno la ruota e i lampioni non c’erano», seni cadenti, muri altissimi che spiombano lontano; dove trapeziste sinuose parlano come camionisti incazzati; dove persino gli aerei perdono l’aura di sicurezza e al contrario «danno l’impressione di uno scampato pericolo, come se gli aerei fossero fatti per cadere e non per volare».

Assieme alla solidità degli oggetti, cade la dimensione della seconda persona, «Io la desideravo e la coprivo con i petali che staccavo dalle corolle. Lei stava supina e mi lasciava fare […] le chiesi soltanto se l’indomani preferisse essere ricoperta di erbe aromatiche o foglie di magnolia. Ma lei:– Lascia stare, domani mi copriranno di terra»; il “tu” personale diventa un tu generico, come davanti a uno psicologo; gli oggetti si fanno ombre pesanti, che gravano sullo spirito solitario dell’io narrante e infine figure mostruose smembrano l’io attraverso la carne, in una novella mitologia, non dell’Inzio, bensì della Fine: «Orrende creature bestiali portano lo scompiglio tra la folla. Una di queste, mostruoso ibrido con muso ferino innestato su un’unica sproporzionata mammella, regge tra le mani levate una piccola tavola quadrata per il gioco dei dadi […] Fossi in voi spalancherei le gambe e offrirei i genitali ai morsi di queste bestie dai denti aguzzi. Se uomo, chiederei loro di strapparmelo. Se donna, di sventrarmi».

 

Pietropaolo Morrone

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  1. Roberto Maggiani 18 Maggio 2021 Reply

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