Apologia di Alex Portnoy

Lamento di Portnoy: “disturbo in cui potenti impulsi etici e altruistici sono in perenne contrasto con una violenta tensione sessuale, spesso di natura perversa”. Nella primissima pagina, Philip Roth precisa il titolo del romanzo, forse regala una chiave di lettura, con una postilla metaletteraria: è una breve definizione, da manuale di psicopatologia, affidata alla penna del dottor Spielvogel, psicanalista. Lamento di Portnoy, pubblicato nel 1969, è il quarto romanzo di Roth, il testo che, in un sol colpo, lo ha innalzato e sconsacrato nell’olimpo della letteratura ebraico-americana. Costola della rivoluzione sessuale che ha investito la cultura occidentale dagli anni Sessanta del secolo scorso, dato alle stampe appena una manciata di anni dopo la liberalizzazione di romanzi prima proibiti perché sporchi (Tropico del Cancro di Miller e L’amante di Lady Chatterley di Lawrence, tra gli altri), il dissacrante e impetuoso monologo dell’avvocato ebreo, il “Raskolnikov delle pugnette”, scioccò un paese non ancora realmente disposto alla piena liberazione dei costumi sessuali. L’aspetto del romanzo che più destò scandalo tra critici e intellettuali – e che incise sulle vendite – non fu solo quel linguaggio sboccato e tinto di rude comicità, che nella finzione romanzesca non ci si sarebbe aspettati da “un bambino attento, volenteroso, diligente”, e piuttosto inusuale per un romanziere ebreo, quanto quell’insistenza maniacale sull’atto della masturbazione, oggetto di descrizione e riflessione per molte delle pagine. Troppo il pudore sotterraneo di un’America appena avviata alla libertà sessuale per accettare confessioni tanto intime quanto sfrontate: “Basta con il bravo ragazzo ebreo, che onora i genitori in pubblico e si sbatte l’uccello in privato!”, potrebbero aver esclamato i primi, apparentemente illibati lettori del dolente assolo di Alex Portnoy.

In sette capitoli, che anche nei titoli (Seghe e Figomania, piuttosto eloquenti) rivelano l’argomento che impregna le pagine del romanzo, il nevrotico protagonista riferisce “segreti, vergogna, palpiti, rossori, sudori”. Il Lamento di Portnoy sgorga in un potente flusso di coscienza, che si scioglie fluido in un intreccio di episodi – solo in apparenza scevro di un filo conduttore – che ripercorrono, con minuzia e affannosi sussulti di coscienza, le tappe della vita sessuale del libidinoso Giudeo, alla ricerca spasmodica di una risposta alla domanda che, ossessiva, si pone: “Perché, perché non posso godermi qualcosa senza che tenga subito dietro l’espiazione, come un vagone di coda?”. Tuttora la masturbazione ha i connotati del tabù, con il corollario di falsi miti che si trascina dietro le porte chiuse; figurarsi quanto sconce dovettero sembrare nel 1969 le confessioni che Portnoy rivolgeva al proprio analista. E Seghe, “attraverso un mondo di fazzoletti sgualciti e kleenex appallottolati e pigiama macchiati”, con umoristica maestria e generosità di ridicoli dettagli, richiama le lotte disperate dell’adolescente ebreo con un padre che “soffriva – come ne soffriva! – di stitichezza”, per contendersi il dominio del bagno. Alex Portnoy rivela all’analista di aver trascorso metà della sua vita di ragazzo dietro porte chiuse ad agitare convulsamente il proprio membro turgido, infiammato dallo sfregamento esasperato, “nell’eterno terrore che la mia schifosità venisse scoperta e qualcuno mi piombasse addosso proprio nell’istante frenetico in cui deponevo il mio carico”. Ammettere l’abbandono totale a una pratica bollata come depravata bastò a sconvolgere ipocriti benpensanti.

Tuttavia, Spielvolgel aveva avvisato i lettori: il Lamento di Portnoy è animato da violenta tensione sessuale e così, per diverse pagine, l’ebreo si arrende ai ricordi della scoperta sessuale, in un crescendo sconvolgente di fantasie: masturbarsi è più di una necessità, quasi un’ossessione e ogni ambiente, ogni oggetto comune innescano in Portnoy un impulso irresistibile che guida la sua mano verso l’artefice della “collosa evidenza”. Se solo fosse riuscito a “contenere i rasponi a uno al giorno”, si biasima con modesta convinzione. Neppure “la prospettiva dell’oblivione in agguato” riesce a far desistere l’ipocondriaco Alexander da quello sfregare e tirare la carne, come alla ricerca di “nuovi primati personali”. Ma, se all’oblio era destinato, tanto valeva non abbandonare le sue lussureggianti abitudini: prima, dopo, perfino durante i pasti. Calzini sporchi nascosti in camera, una mela senza torsolo, un reggiseno della grassoccia e poco sveglia sorella maggiore, un guanto da baseball, l’involucro di una merendina, una bottiglia di latte vuota e invasellinata divengono inconsueti strumenti di piacere, che solleticano la fantasia di un adolescente non ancora avvezzo al corpo e alla bocca di una donna di carne. Un climax incontrollabile di desideri di penetrazione fino all’episodio più perturbante: la bistecca di fegato acquistata dal macellaio un pomeriggio e “violentata” dietro un cartellone pubblicitario, lungo la strada per la scuola ebraica.

Così, un alone di scandalo e indignata riprovazione avvolse il romanzo di Philip Roth: “one of the dirtiest books ever published” secondo il New Yorker, sebbene giungesse alla ribalta in un particolare momento storico e culturale, nel quale poteva farsi portavoce degli uomini ebrei americani di seconda generazione, prendendo le distanze dall’impegno storico di predecessori quali Saul Bellow e Bernard Malamud, e dando nitida espressione alle ansie di “uomini sgradevoli […] impauriti, diffidenti, autodenigranti, evirati e corrotti dalla vita nel mondo dei gentili”. Il Lamento di Portnoy, in tal senso, apre una strada nuova alla letteratura ebraica: diviene racconto comico e disperato, ma non per questo meno impegnato nella ricerca di un’identità, condotto sul filo della colpa, in uno scenario di frustrante nevrosi in cui l’incubo peggiore ha il sapore delle pietanze kosher consumate di malavoglia al tavolo familiare. Come in un crescendo di gemiti fino all’orgasmo finale, Portnoy accompagna Spielvogel silenzioso tra gli anfratti della sua psiche, interrogandosi sulla sua felicità mancata e ripercorrendo i ricordi masturbatori adolescenziali, fino alla evoluzione in maschio adulto, ossessionato dalle donne, che fantastica “sulla passera di domani nel momento stesso in cui sta fottendo quella di oggi”.. Tuttavia, per quanto deviante e reale possa essere l’istinto sessuale che anima Alex Portnoy, è lecito tacciare il romanzo e il suo protagonista di depravazione e distorta moralità, come immondo manifesto d’irrazionale animalità?

Senza soffermarsi sui modi individuali di vivere la sessualità, è utile notare come l’estremismo e la compulsione con cui Portnoy affronta l’approccio col proprio corpo e con quello delle donne venga percepito, superficialmente, come sessualità malata e perversa, ignorandone, non tanto il carattere patologico, quanto piuttosto le motivazioni possibili e i suoi effetti. Del resto, nella postilla iniziale Spielvogel avvisa i lettori come “né le fantasie né le azioni si traducono in autentica gratificazione sessuale, ma piuttosto in un soverchiante senso di colpa unito a timore di espiazione”. È anche questa la ragione per la quale non bisogna limitarsi a sfiorare la pelle di questo romanzo, temendo di penetrarne la profondità, oscura perché scomoda da accettare: il Lamento di Portnoy è un ritratto esemplare del frustrante senso di colpa che grava sul nuovo uomo ebreo nel contesto della liberalizzazione sessuale. La febbrile lussuria di Alexander non è solo manifestazione di un disturbo psicologico sessuale di tipo deviante, ma si innalza a meccanismo esistenziale: la necessità costante di dare espressione a un erotismo non conformista, al confine con la pornografia, si rivela, in realtà, un mezzo, l’unico possibile per Portnoy, per esplorare le molteplici sfaccettature dell’esistente: cultura, religione, società, storia, politica. Alexander, cresciuto in un ambiente familiare e sociale repressivo, un imperativo negativo dietro l’altro, vive il sesso come approccio totalizzante a una vita che non ha mai potuto cogliere nella sua autenticità, per “sensi di colpa, paure, terrore fin dentro le ossa”: da un lato un padre filisteo, così retrivo da lasciarlo in bilico tra odio e amore, procurandogli pena; dall’altro, una madre morbosamente apprensiva, tanto desiderosa di mettere a frutto il potenziale del suo “innamorato” da puntargli un coltello al cuore. “Esisteva nel loro mondo qualcosa, che non fosse carico di pericoli, grondante di germi, gravido di minacce?”. Il sesso è per Portnoy un’opportunità: di fuga da un “tale senso terroristico della vita”, di defezione dalla sua famiglia, da quello che un buon ebreo dovrebbe essere e fare, da una greve eredità culturale. E come Alexander oscilla tra amore e odio per la propria famiglia, per le sue radici, per le donne, così affronta la fame di carne, ambiguamente. La sua libido è, da una parte, ribellione alle tradizioni familiari ed evasione da un passato che non sente appartenergli, strumento per la ricerca di una nuova identità; dall’altra, è urgenza di appropriarsi di quelle radici ebraiche che, pur vincolanti, inconsciamente difende e cerca di fare proprie: il solo mezzo che conosce è la penetrazione e sottomissione sessuale delle donne. Non è casuale, dunque, che il “freddo, lucido, ostinato” avvocato ebreo scelga come oggetto del proprio desiderio donne così dissimili: “Come se scopando volessi scoprire l’America. Conquistare l’America” afferma, narrando le sue esperienze sessuali, con donne non ebree, di diversa estrazione sociale e geografica, di differente credo politico. Alexander non vuol solo possederle carnalmente e secondo estreme perversioni, ma desidera penetrare, con esse, il mondo al quale appartengono, la vita disinibita e spensierata che a lui non è mai stata concessa, se non a prezzo di tormenti e sensi di colpa.

Sfilano nella sua vita donne, ognuna rappresentativa di un microcosmo sociale. Tra tutte, spicca Mary Jane Reed – soprannominata la Scimmia per un episodio, di natura erotica, che la vede protagonista – simbolo dell’ignoranza proletaria, la donna a cui Alex sente di dover fare da padre e madre, educare, redimere, con la quale prova degradazione e vergogna; la donna che lo spinge, infine, a calpestare il suolo d’Israele alla ricerca di un equilibrio che appaghi la sua vita. E sebbene New York pulluli di donne “promettenti, inviolate, incontaminate”, neppure loro possono soddisfarlo e acquietarne l’inquietudine: “anche loro erano sbagliate”. Neppure Melone, la shikse intelligente e indipendente, è adatta a diventare una moglie: “Perché dovrei voler fare una cosa del genere?” domanda ingenuamente ad Alex che, ironico, – o così dice – le chiede di convertirsi all’ebraismo. Una vita trascorsa a cercare una scappatoia dallo standard di perfezione imposto, l’onanismo eretto a rifugio dalla materna repressione degli istinti, costretto a domandare scusa per non essere “come gli altri ragazzi ebrei” ai quali furiosamente prova a non somigliare e, dopo tutto, il rifiuto di Melone di diventare una brava donna ebrea lo indigna: “Come facevo a sentirmi ferito dove non ero neppure vulnerabile?” finisce per chiedersi uno sgomento Portnoy, rivelando un barlume d’orgoglio per le proprie origini, e “quel primo incontaminato brivido di sadismo con una donna”. Anche il suo rifiuto della repubblicana Pellegrina non scaturisce tanto dal timore di lei nel praticare il coito orale: “intollerante della sua fragilità. Geloso dei suoi successi. Risentito verso la sua famiglia. No, non c’era molto posto per l’amore”. Non sono poche le occasioni in cui Alex sembra scosso da guizzi improvvisi di tenerezza verso queste donne ma, al di là del possesso carnale, non è davvero incline a legarsi a loro: è la castrazione identitaria che si trascina dietro dall’infanzia che fa da deterrente alla sua stabilità relazionale o è un essere umano deviato da insaziabile onanismo? “Ma perché devo stare a giustificarmi! Scusarmi! Perché devo giustificare le mie voglie con l’Onestà e la Sensibilità? Ho delle voglie e basta… tranne che sono insaziabili. […] Ma infine, ci spiega Freud, l’inconscio non può fare altro che volere. E volere!”. In questo perpetuarsi di slanci erotici, Alexander Portnoy proprio non riesce a legarsi, ma perché dovrebbe? “Per amore? Quale amore? Quello che tiene legate tutte le coppie che conosciamo (quelle che si sono date la pena di lasciarsi legare)? Non è piuttosto debolezza? Non è piuttosto convenienza, apatia, senso di colpa? Non è piuttosto paura, estenuazione, inerzia, pura e semplice mancanza di coraggio, molto, molto più dell’«amore» di cui sognano sempre i consulenti matrimoniali, i parolieri e gli psicoterapisti? “Per favore, non prendiamoci per il culo con l’«amore» e la sua durevolezza” riflette ad alta voce, come se volesse, a distanza di anni e loro potessero ascoltarlo, giustificare a quegli “ottentotti e zulú” dei suoi genitori il non essere diventato un buon ebreo, sistemato con una brava donna ebrea, padre di ubbidienti bambini ebrei. Esattamente ciò per cui Sophie Portnoy aveva sempre lavorato, assicurandosi della buona salute del suo bambino con l’osservazione minuziosa dei suoi scarti e soffocando ogni scatto istintivo con manie di perfezione e ferree regole “per creare nel giro di soli pochi anni un essere umano realmente a culo stretto”, poiché “autocontrollo, temperanza, punizioni: ecco la chiave della vita umana”.

Pur rivendicando la propria condizione di uomo che non può legarsi perché incapace di rinunciare alla novità, Alex non desiste dall’aspirazione a partecipare dei mondi goym da cui le sue donne provengono, nell’estenuante tentativo di strappare sé stesso e i propri desideri a una coscienza, che nel profondo li ripugna, ma soprattutto a una sfilza di tabù e a un modello educativo impositivo di precetti assoluti. Il nodo, in apparenza irrisolto, del Lamento di Portnoy è in questa bruciante ambizione a liberarsi delle contraddizioni che gli sono state inculcate e che avverte come una prigione d’oro, che lo vince e a tratti convince. Non a caso, il monologo si stringe intorno al ricordo della disfatta finale: la protagonista è Naomi, la Melone Ebrea, una “ideologica figona” che ammalia Portnoy con le sue “conferenze” sull’etica sociale: quasi è sopraffatto dalla fantasia di sposarla, vivere sulle montagne al confine siriano, diventare un uomo nuovo, lui che porta il cognome di famiglia! È questo lo slancio estremo d’impadronirsi di un’identità culturale che tutta la vita ha insieme fuggito e inseguito a colpi di seghe. Così, pur di avere ciò che crede di bramare, è disposto alla violenza, a prendere con il suo unico talento ciò che immagina spettargli, come un’eredità a lungo attesa. Ma Alexander Portnoy è impotente in Israele, non è in grado di conquistare quell’identità che ha sempre cercato di ripudiare e Naomi, in un fulmineo moto di pietà, gli dà l’unico consiglio possibile: “tornare in esilio”, nel posto che, solo, può accoglierlo. Ancora una volta, non può definirsi casuale la volontà forzosa di Portnoy di prevalere, con la forza bruta, su una donna come Naomi. Ella è, per ammissione stessa del nevrotico, un “succedaneo di madre”, con i suoi capelli rossi e le lentiggini, perché lei e Sophie sono “prole del medesimo pallido seme ebreo-polacco”. Non è forse una proiezione della madre stessa, iperprotettiva e coercitiva, che Alexander cerca di sottomettere e sopraffare per liberarsi, infine, di quel groviglio di divieti e imperativi che condizionano ogni suo gesto, perfino ogni pensiero, e che sembra poter espellere, solo momentaneamente, strofinando in modo ossessivo il suo “affarino”? Lo sa bene, Portnoy, che questo è il “culmine del dramma edipico”, la sua infanzia senza fine, che non lo abbandonerà e che lui non abbandonerà: eppure, in preda a un convulso isterico, pare quasi difendere la tragicità di quel crudele, consumato incesto – l’Edipo Re non è una barzelletta, qualcosa per cui ridere –, come se volesse, al contempo, sottolineare la drammaticità della propria situazione, “un tantino deprimente” ma, d’altra parte, “perché dovrebbe finire? Per compiacere un padre e una madre? Per conformarsi alla norma? […] Qual è il delitto? La libertà sessuale?”.

Dunque, residui degli infantili turbamenti influenzano il modo in cui il trentenne Alexander vive i rapporti con le figure femminili, spesso giudicati all’insegna della misoginia, ma quest’uomo nevrotico e insicuro può definirsi davvero un misogino? Difficoltà a stabilire un legame duraturo e sprazzi di arroganza nel vanto di doti intellettuali e conquiste lavorative – e bisogna tener presente che a convincere Portnoy di essere un bambino speciale fu proprio quella Sophie – bastano per farne un odiatore di donne? Alex cerca contatti con quelle “gentili” dissolute, che da ragazzino desiderava e seguiva di nascosto lungo la pista di pattinaggio, ragazze bionde e sfacciatamente americane che mai avrebbero potuto metter piede in casa sua (Sophie non avrebbe approvato tale unione). Sembra quasi voler fare un dispetto alla madre, almeno nel chiuso confortevole della sua coscienza perché, di fatto, nessuna delle ragazze da lui frequentate è nota alla famiglia. Se, da una parte, Alex predilige le shikses, sfidando l’inossidabile divieto materno, dall’altra, si premura di fare in modo che le sue avventure erotiche proibite restino ignote a Jack e Sophie e, “mentre tutti gli altri hanno sposato brave ragazze ebree, […] hanno messo radici (espressione di mio padre), mentre tutti gli altri figli hanno trasmesso il cognome familiare, lui si è limitato a… andare a caccia di figa. E figa shikse, per giunta!”. Per quale ragione si comporta così? Semplicemente, sostiene, si rifiuta di essere perfetto. Infatti, nonostante i procreatori Portnoy decantino i successi del brillante Commissario per le Risorse Umane di New York, la sua condizione di single procura loro immenso dispiacere e il desiderio di Alex di liberarsi dalla loro stretta morbosa, desiderando perfino la loro morte – salvo poi prorompere in lacrime al pensiero che ciò possa accadere – fa sì che limiti qualsiasi contatto con loro.

A trentatré anni, Alexander teme e mal sopporta i loro suggerimenti per vivere da buon ebreo, ai quali, intrappolato in un incubo infantile, non può che reagire con “voce acuta e strozzata da adolescente”, perché “un uomo ebreo con i genitori in vita è per la metà del tempo un infante imbelle!” e si rivolge a Spielvogel perché lo faccia finalmente uscire dal ruolo “di figlio represso in una barzelletta sugli ebrei” in cui è in ballo “una certa qual dose di umano patimento”. L’atteggiarsi a creatura superiore rispetto a donne poco sveglie, comuni e grasse, che cercano di incastrarlo in un matrimonio coi sensi di colpa, non sono forse uno sforzo di ribellione agli antichi dogmi materni? La stessa Pellegrina “fu soltanto qualcosa di carino che una volta tanto un figlio fece per suo padre […] per tutti quegli anni di lavoro e sfruttamento”. Dopo tutto, Alexander Portnoy è terribilmente insicuro – un padre silenzioso e costipato non ha provveduto a trasmettergli mascolinità – e la sicurezza da uomo vissuto e lavoratore socialmente riconosciuto che da adulto ostenta, altro non è che un goffo tentativo di celare i suoi timori di derisione, quelli che si trascinava dietro pattinando negl’inverni di Irvington Park: Alex non dimentica la canappia sporgente sul suo viso. Allo stesso modo, quello che è stato definito rozzo antisemitismo, altro non è che l’espressione dello spirito di liberazione di Alexander dai dogmi religiosi e dai precetti familiari di stampo ebraico. Alex già da bambino non ha fede nel Dio che i genitori gl’impongono, quello stesso Dio che punirà i goyim libidinosi e mangiatori di aragoste. Egli disprezza gli ebrei per il godimento che provano, come dimostrazione di alta moralità, nell’abbandonarsi al biasimo, che “è di per sé sofferenza”, e per “l’ostentazione della loro rettitudine”, eppure afferma che “quando si tratta di pacchianeria e ostentazione, di credenze che farebbero vergognare perfino un gorilla, è praticamente impossibile raggiungere i livelli dei goyim. Che razza di rincoglioniti da quattro soldi sono costoro per adorare un tizio che, primo, non è mai esistito e, secondo, se è esistito, a giudicare da quel quadro era senza dubbio La Checca della Palestina”. Bersaglio del disappunto non è solo l’ebraismo, dunque, ma anche il cristianesimo e, in generale, l’insieme delle religioni nella misura in cui, con i loro comandamenti, pongono un limite intollerabile al libero arbitrio. Che sesso e religione impregnino, annodati, il viscerale monologo di un nevrotico non è bislacca blasfemia, perché il Lamento di Portnoy vuol essere questo: un inno alla libertà dell’essere umano, che si intenda la libertà di pensiero o sessuale, l’autonomia decisionale e l’emancipazione da una famiglia, da convenzioni sociali, da un passato ingombrante. Il Lamento erompe dai tentativi rabbiosi e disperati di un uomo, immerso nel “lato più fangoso della vita”, che prova a conoscere sé stesso e scoprire cosa davvero ha in mente e non “strisciare attraverso la vita ingozzandosi di passera”. I tentativi, però, falliscono, inesorabili: “Ma cosa ha fatto la mia cosiddetta coscienza alla mia sessualità, alla mia spontaneità, al mio coraggio! E non parliamo neppure delle cose a cui tento così disperatamente di scampare, perché resta il fatto che comunque non ci riesco!”. Questo romanzo non racconta quello che un buon ebreo dovrebbe essere, ma quello che è realmente e assurge, così, a manifesto della generazione di giovani ebrei americani degli anni Sessanta. Allora la cosa più crudele che ognuno possa fare col Lamento di Portnoy, con buona pace di Irving Howe, non è leggerlo due volte, bensì non leggerlo affatto, perché si priverà del piacere di conoscere questa bizzarra, divertente e intensa barzelletta ebraica.

 

Francesca Belsito

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