#gliIneditidiBiblon è una rubrica dedicata alla pubblicazione di racconti inediti. Per avere info e per inviarci i vostri scritti la mail è g.canade@biblon.it
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(Rosy Mundo, Panni stesi, 1999, murales)
L’oblò sembra impazzito.
Spalanco gli occhi e seguo il vortice rotatorio che a tratti sembra bloccarsi per riprendere fiato, “non ce la fa più”, borbotto, “chissà quanto sudiciume ha visto scorrere nel tubo di scarico in tutti questi anni”. Poi sorrido, stringo la mano di Luca e penso che i panni sporchi si lavano in famiglia, come diceva mio nonno nel periodo in cui asseriva che, dato l’aumento del mio peso, fossi rimasta incinta con l’ausilio di un prodigio divino. Il pantalone a costine gira in tondo spinto dalla forza centrifuga e perde colore. Macchia l’acqua di uno scuro intenso che mi riporta alla fanghiglia torbida dei peccati non commessi, alle bravate evitate per onor del quieto vivere, mi trascina in un tempo in cui non ci fu mai giorno che, pur di non pensare, non tenessi la mente impegnata in qualcosa.
“È occupata?”.
“Cosa, la mente?”, rispondo distratta.
Alzo lo sguardo e vedo un uomo sopraggiunge col fiatone e due gocce di sudore in equilibrio sulla fronte spaziosa. Ha tre buste colme, attorcigliate tra le dita livide.
“Ah la sedia! Sì, è libera, faccia pure”, gli sussurro incredula. Poi con un gesto meccanico lo invito ad accomodarsi accanto al mio sedile di plastica rossa. L’anziano mi sorride e mentre penso che tutto ciò non sia possibile, mi guarda dicendomi che ai suoi tempi “si stava meglio”, che non esisteva niente di tutto ciò e che i panni sporchi si lavavano in casa. Io continuo a guardarlo dritto in faccia, mi sporgo dalla sedia scricchiolante e gli punto il dito contro. “Nonno, ma sei davvero tu?”. La mia voce stridula non cede all’emozione e rimane in bilico tra un semitono e il successivo. “Chi pensavi che fossi, babbo natale?”. Lui ride sornione come sempre e si butta a peso morto sul sedile.
“Che ci fai qui figliolo!”.
Io mi guardo intorno stupefatta, il cuore palpita da una parte all’altra di un petto glabro che non riesce a contenere l’emozione.
“Cosa ci fai in questo luogo pubblico vestito così, intendo?”. Mi domanda senza mollare i bustoni colmi d’indumenti.
“Sto aspettando che la lavatrice finisca il ciclo. Dentro c’è il tuo pantalone nero a costine”.
“Il mio pantalone?” Ribatte lui severo, “e a cosa pensi che mi serva oramai?”
“È per la cerimonia di domani”, lascio precipitare l’ultima sillaba in un turbine di tosse nervosa. Non so cosa rispondere, presa in contropiede mi avvicino pensando che a dire la verità non si sbaglia mai. Prima però, mi sporgo per abbracciarlo, le mie labbra si socchiudono a dargli un bacio forte sulla guancia morbida, lui mi schiva. “Niente smancerie in luogo pubblico figliolo”. Si allontana, e mi lascia sospesa in una smania d’affezione infantile, in un buco nero di gesti amorevoli e parole dolci mai pronunciate, a causa di un inconcepibile riserbo inculcatomi sin da bambino.
“Quante volte ti ho detto, figliolo, che i panni sporchi si lavano in famiglia! Il mio pantalone nero a costine da lì, deve uscire immediatamente e tu cambiati che così sembri una donna”.
Abbasso gli occhi e inchiodo la schiena sulla spalliera di questi orribili sedili rossi. Lui non molla la presa, non mi ha mai perdonata, non è riuscito ad accettarlo.
“Ma quando smetterai di giocare a fare la femmina, io alla tua età, ero un uomo cazzuto, un tipo forte, un maschio vero, invece tu entri in crisi esistenziale solo perché non ti si è alzato la prima volta. Poi, come se non bastasse, te ne vai in giro a fare lavori da donna e a lavare i panni sporchi in questi maledetti luoghi pubblici”.
Non mi guarda mentre parla, non l’ha mai fatto neanche prima e tutti e tre, io, Luca e mio nonno, concentriamo l’imbarazzo sulla centrifuga della lavatrice che è in via di rallentamento. Io a Luca lo amo, è stato così sin dal primo bacio, sin da quando gli ho confidato che non mi sentivo in agio nei miei abiti. Non me ne vergognavo allora e non ho alcuna voglia di ripensarci adesso. “Sono semplicemente un ragazzo che prova sentimenti per un altro ragazzo, tutto qui”. Sussurro con un nodo in gola che quasi mi strozza. Mio nonno fa per alzarsi spazientito e io distolgo lo sguardo dall’oblò. Fisso le sue mani livide che non ne vogliono sapere di lasciare andare quei sacchi pesanti, quei macigni che con forza s’agganciano a falsi moralismi che non hanno alcuna intenzione di allentare la presa. Ingoio quel bolo di dolore e abnegazione poiché sono stata abituata a tacere di fronte alle evidenze, a nascondere aspetti diversi in un mondo che di diverso oramai, non ha più nulla.
“Aspetta, dove vai?”
“Dove vuoi che vada figliolo?”
“Rimani un altro poco qui vicino a me, il lavaggio è quasi finito”.
Lui mi guarda, mi sorride, vorrei dirgli che gli voglio bene, vorrei ringraziarlo per tutto ciò che ha fatto e per tutte quelle volte che a modo suo, ha cercato di farmi ragionare.
“Vado via figliolo, non ho più tempo”.
Nonno guarda me e poi Luca, borbotta qualcosa, una sorta di benedizione, ci affida nelle mai di qualcuno che ci proteggerà da ogni male. Ha consacrato la nostra unione. Apre le dita e lascia che quei sacchi zeppi di roba allentino la presa sugli arti cianotici, inspira e lascia andare le buste. Percepisco il sollievo delle dita il cui colore viola adesso, vira verso il fucsia. L’anziano lascia cadere sul pavimento quei pesanti fardelli di cose da non fare, di fatti da non raccontare “chè poi la gente mormora”. Macigni di perbenismo mancato che è stato costretto a caricare sulle proprie spalle come del resto avrebbe fatto un vero uomo, un padre di famiglia in un’epoca in cui tutto era tabù. Dalla plastica bianca s’intravede la maglietta di mia madre. Una chiazza color crema le centra in pieno il petto, più a destra invece, scorgo il soprabito di mio padre. È macchiato di rosso, è sporco di sangue. Più indietro c’è la gonna verde di mia zia, ha due patacche arancioni impresse sul pizzo della sottana. C’è tanta roba lì dentro, c’è il bene, c’è il male, c’è il peso di esistenze campate per metà, spezzate ancor prima di prendere il volo. Scorgo altri indumenti di cui non riconosco la provenienza, forse nipoti, cugini o addirittura amici che lui, patriarca difensore della stirpe, ha sempre cercato di proteggere contro ogni insidia. Ora sarebbe il mio turno, dovrei passarci io sotto la sua ala, ma lui è impotente. Avvia un piede davanti all’altro e barcolla, quasi inciampa tra le macerie di quelle libertà taciute. Si volta e mi fissa dritto in faccia, mi sorride. Poi guarda le mie mani intrecciate a quelle di Luca, fa una smorfia buffa e di nuovo borbotta una benedizione. A mani prosciolte, mio nonno è finalmente assolto. Ora va via di fretta, non ha più il fiatone, il passo è leggero, sgombro da ogni anomalia. La lavatrice ha finito, fra qualche minuto scatta il nuovo lavaggio, “devo sbrigarmi” penso. Balzo verso l’oblò ancora tiepido e lo spalanco per salvare l’indumento che domani vestirà questo grande uomo durante uno dei giorni più tristi di tutta la mia vita, la cerimonia del suo funerale.
(c) 2018 Paola Curia
Classe 1978, Paola Curia pubblica il primo libro, ”Diario terapeutico di una pluripara alla ricerca dell’equilibrio perfetto” (Falco Ed., 2017). Ha pubblicato un racconto breve sulla Rivista Il Loggione Letterario, un racconto sulla Rivista L’Irrequieto e uno per la Rivista Toscana Sguardindiretti. Ultimamente compare sul blog Italians Book is Better con un racconto pubblicato da Voce del Verbo e ritenuto tra i migliori in Una Settimana di Racconti#99.