Questa settimana la rubrica curata da Nazareno Loise ospita un breve articolo di Pietropaolo Morrone intorno alla Lettera al padre di Franz Kafka.
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Considerazioni sulla Lettera al padre di Franza Kafka.
18 ottobre 1917. Paura della notte. Paura della non-notte. […] Sto uscendo fuori strada. La vera via passa su una corda che non è tesa in alto ma rasoterra. Sembra fatta più per inciampare che per essere percorsa […] Peccaminosa è la condizione in cui ci troviamo, indipendentemente da ogni colpa.
Due anni prima della stesura della Lettera al padre, Franz Kafka scriveva queste righe nel terzo dei celebri Quaderni in ottavo. La paura, la colpa si svuotano di ogni nesso causale, diventano mostri autonomi che si alimentano della vita, della carne, del sangue e del respiro malato, debole di Franz. Resta solo qualche assolata striscia di felicità ma sempre lì lì per seccarsi al sole.
Nella lettera al padre, poi, tutte le paure, i segreti, i turbamenti espressi nei diari e nei quaderni trovano il loro punto di convergenza, la loro origine, la loro giustificazione (il mio senso di colpa, in realtà, proviene da te), ma se ne svuotano subito, diventando universali, di tutti noi, nelle sue opere letterarie (v. Il processo, La metamorfosi) che diventano dei cappi vuoti, perfetti per qualsiasi testa. Un senso di colpa privo di causa, come un recipiente vuoto ma pronto a riempirsi e ad adattarsi a qualsiasi bocca, regge Il Processo e causa paura e senso di oppressione costante, che si avverte dalla prima riga: Qualcuno doveva aver denunciato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato. Venne arrestato senza motivo, in quanto colpevole di un peccato originale che è quello stesso dell’esistenza.
Carissimo padre,
di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te. Come al solito, non ho saputo risponderti niente, in parte proprio per la paura che ho di te, in parte perché questa paura si fonda su una quantità tale di dettagli che parlando non saprei coordinarli neppure passabilmente. E se anche tento di risponderti per iscritto, il mio tentativo sarà necessariamente assai incompleto.
Franz ha trentasei anni, è gracile, piccolo, malato, ha la tubercolosi: per molto tempo sono cresciuto in altezza, ma non sapevo che farmene, il peso era troppo, la schiena si incurvò. Suo padre, Hermann, è forte, autoritario, ha una voce possente, scoppia di salute, il suo volto paonazzo, le bretelle staccate in fretta e appoggiate sullo schienale della sedia […] terrorizzano Franz che si sente […] come quando uno deve essere impiccato. Se lo impiccano davvero, è morto, e tutto è finito. Ma se deve assistere a tutte le preparazioni per essere impiccato e solo quando gli fanno scorrere il cappio intorno al collo apprende di essere stato graziato, allora può soffrirne per tutta la vita. Inoltre dalle molte volte in cui, secondo l’opinione da te chiaramente manifestata, mi sarei meritato una scarica di botte ma le avevo evitate per un pelo grazie alla tua magnanimità ho ricavato soltanto un gran senso di colpa.
Hermann sopravviverà a suo figlio di molti anni.
Già ero schiacciato dalla tua nuda fisicità. Ricordo ad esempio come, frequentemente, ci spogliavamo insieme in cabina. Io magro, debole, sottile, tu forte, alto, massiccio. Già in cabina mi sentivo miserabile, e non solo di fronte a te, ma di fronte a tutto il mondo, perché tu eri per me la misura di tutte le cose. Se però uscivamo dalla cabina davanti alla gente, e tu mi tenevi per mano, io che ero uno scheletrino insicuro, a piedi nudi sulle assi, tremebondo davanti all’acqua, incapace di ripetere i movimenti che tu, con le migliori intenzioni ma in effetti con mia profonda vergogna, eseguivi nuotando, allora ero disperatissimo, e tutte le mie esperienze negative in tutti i campi in quegli istanti concordavano in modo grandioso. Meglio era quando tu, qualche volta, ti spogliavi per primo e io potevo rimanere da solo in cabina e rimandare la vergogna dell’uscita in pubblico finché tu alla fine non venivi a controllare e mi spingevi fuori dalla cabina. Ti ero grato del fatto che sembravi non notare la mia pena; inoltre ero orgoglioso del fisico di mio padre. Del resto questa differenza tra noi sussiste ancor oggi.
[…] Davanti a te avevo perso la fiducia in me stesso e in compenso acquisito uno smisurato senso di colpa. Non comprende i suoi bisogni. La mia vanità, la mia ambizione soffrivano per la frase ormai proverbiale con cui accoglievi i miei libri: «Mettilo sul comodino!» (Di solito quando arrivava un libro stavi giocando a carte).
[…] da bambino stavo con te soprattutto durante i pasti, le tue lezioni erano in massima parte lezioni su come ci si comporta a tavola. Quel che si metteva in tavola doveva essere mangiato, sulla bontà del cibo non si discuteva; ma tu spesso lo trovavi immangiabile, lo chiamavi “mangime” e affermavi che la “bestia” (la cuoca) l’aveva rovinato. Poiché tu, in considerazione del tuo vigoroso appetito e di una tua particolare attitudine mangiavi tutto rapidamente, bollente e a grossi bocconi, anche tuo figlio doveva affrettarsi, e a tavola regnava un cupo silenzio, interrotto dalle esortazioni: “Prima mangia, poi parla”, oppure: “Più alla svelta, più alla svelta”, oppure: “Vedi, io ho già finito da un bel pezzo”. Gli ossi non si potevano rosicchiare, ma tu lo facevi; l’aceto non si poteva sorbire, ma tu lo facevi. La cosa più importante era tagliare il pane diritto; che tu però lo facessi con un coltello grondante di sugo era indifferente. Si doveva fare attenzione a non lasciare cadere avanzi di cibo sul pavimento; di solito erano tutti sotto di te. A tavola ci si doveva occupare solo del pasto, tu però ti tagliavi le unghie, facevi la punta alle matite, ti pulivi le orecchie con uno stuzzicadenti. Ti prego, padre, non fraintendermi, sarebbero stati di per sé particolari completamente insignificanti: per me divennero schiaccianti soltanto perché tu, misura assoluta di tutte le cose, personalmente non ti attenevi ai comandamenti che mi imponevi. In questo modo il mondo per me risultò diviso in tre parti: una in cui vivevo io, lo schiavo, sotto leggi che erano state escogitate soltanto per me e che inoltre, non sapevo perché, non ero mai in grado di rispettare completamente; poi un secondo mondo, infinitamente distante dal mio, in cui vivevi tu, impegnato a governare, impartire ordini e andare in collera se non erano eseguiti; e infine un terzo mondo, dove il resto degli uomini vivevano felici, liberi da ordini e obbedienza. Io ero costantemente in preda alla vergogna: o seguivo i tuoi ordini, ed era una vergogna perché valevano soltanto per me, o recalcitravo, e anche questa era una vergogna, perché non si poteva recalcitrare davanti a te, o non riuscivo a seguirli, perché ad esempio non avevo la tua forza, il tuo appetito, la tua abilità, per quanto tu pretendessi quella data cosa da me come ovvia; e questa era comunque la vergogna più grande.
Franz è incapace di sposarsi, di avere una donna veramente, carnalmente, perché tutto questo implicherebbe il superamento di suo padre, il gigante imbattibile.
Ricordo che una sera passeggiavo con te e con la mamma […] e presi a parlare in quel modo stupidamente millantatore, superiore, orgoglioso, distaccato (il che era insincero), freddo (il che era vero) e balbuziente che perlopiù usavo con te di quelle cose interessanti, vi rimproverai per non avermi edotto in materia, che erano stati i miei compagni di scuola a doversi occupare di me, che avevo corso grandi pericoli (qui, al solito, mentivo svergognatamente per mostrarmi coraggioso, perché a causa della mia pavidità non avevo un’idea più esatta di quei “grandi pericoli”), e in conclusione affermai che adesso per fortuna sapevo tutto, non avevo più bisogno di consigli ed era tutto a posto. Principalmente avevo iniziato a parlarne perché almeno il parlarne mi divertiva, poi anche per curiosità e infine per vendicarmi un po’ di voi. Tu, conformemente al tuo modo di essere, la prendesti con la massima semplicità; dicesti soltanto che avresti potuto darmi qualche consiglio su come praticare queste cose senza pericolo. Forse io avevo voluto celatamente provocare proprio una simile risposta, che corrispondeva sì alla cupidigia del bimbo supernutrito di carne e di ogni leccornia, fisicamente incapace ed eternamente preoccupato per se stesso, ma il mio pudore esteriore ne fu talmente ferito o quanto meno io tanto credetti dovesse esserlo che, contro la mia volontà, non riuscii più a parlarne e con altezzosa sfacciataggine interruppi il discorso.
Non è facile giudicare la tua risposta di allora: da una parte essa ha qualcosa di umiliantemente aperto e, in certo qual modo, primordiale; d’altra parte, per quanto riguarda l’insegnamento in sé, si è recentemente rivelata infondata. Non so quanti anni avessi allora, certamente non molti più di sedici. Per un ragazzino di quell’età fu però una risposta straordinaria, e la distanza tra noi due è dimostrata anche dal fatto che quello fu il primo insegnamento diretto sulla vita che ebbi da te. Il suo vero senso, però, che si radicò già allora dentro di me ma affiorò alla mia coscienza solo molto più tardi, era il seguente: quello che mi consigliavi era, secondo la tua opinione e anche secondo la mia opinione di allora, la cosa più sporca che ci fosse. Il fatto che tu ti preoccupassi che fisicamente non riportassi a casa niente di quella sporcizia era secondario: proteggevi infatti solo te stesso, la tua casa. La cosa principale era semmai che tu, al di là del tuo consiglio, rimanevi un marito modello, un uomo puro, superiore a queste cose; questo probabilmente per me fu acuito anche dal fatto che lo stesso matrimonio mi pareva osceno e quindi mi era impossibile applicare ai miei genitori quanto avevo udito in generale sul matrimonio. In questo modo divenisti ancora più puro, ti elevasti ancora più in alto.
Il pensiero che tu avessi potuto dare anche a te stesso un consiglio simile, magari prima del matrimonio, era per me completamente improponibile. Così su di te praticamente non c’erano resti di sporcizia terrena. E proprio tu, con qualche parola diretta, mi scaraventasti in questa sporcizia, come se vi fossi destinato. Se al mondo ci fossimo stati solo io e te, idea che mi era molto vicina, allora la purezza del mondo finiva con te e con me cominciava, in virtù del tuo consiglio, la sporcizia. Di per sé era davvero incomprensibile che tu mi giudicassi così, potevo spiegarmelo solo con un’antica colpa e col più profondo disprezzo da parte tua. E così ero di nuovo ferito nell’intimo, in modo assai duro.
Franz ha fallito in tutto davanti agli occhi di suo padre, ma non davanti ai nostri. Ci ha regalato un metro universale e inossidabile con cui misurarci, indipendentemente da quello che accade intorno, con cui misurare le nostre miserie, le nostre metamorfosi. Il celebre incipit de La metamorfosi (Gregorio Samsa, svegliatosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo) diventa una formula matematica universale una volta che sostituiamo a insetto immondo tutto ciò che ci terrorizza (come nella stanza 101 in 1984 di Orwell), tutto ciò che ci paralizza ma che ci rende esseri umani.
Pietropaolo Morrone, ricercatore in ingegneria meccanica, diplomato in chitarra, dottore di ricerca, lavora all’Università della Calabria e scrive. Ha frequentato corsi di scrittura, pubblicato articoli scientifici su riviste (Elsevier, John Wiley & Sons), contributi a libri (Woodhead Publishing), un brevetto, racconti (La valigia esplosa, 2013, Coessenza; La città invisibile, 2014, Coessenza; Il coccodrillo e la scarpa, 2015, Il Filorosso) e su riviste.