Quella di Friedrich Dürrenmatt (1921-1990) è una delle figure più eccezionali dell’intero panorama artistico del Novecento. Attivo sin da giovanissimo (il suo primo racconto risale al 1942), divise il suo lavoro tra drammaturgia e narrativa.
Aggiungendo suggestioni di impronta espressionistica al lavoro di rinnovamento del teatro di lingua tedesca iniziato qualche anno prima da Bertolt Brecht, Dürrenmatt si affermò in campo drammaturgico grazie alla sua verve grottesca, iconoclasta e polemica. Scetticismo razionalistico e rigore etico, straordinariamente mescolati e calati in un linguaggio sarcastico e spregiudicato, lo portarono ad essere riconosciuto come uno dei drammaturghi più anticonformisti della sua generazione, capace, come pochi, di demistificare la storia attraverso un’analisi cinica e carnale del reale. La sua opera più celebre è La visita della vecchia signora (1956).
La stessa anima contestatrice e spietata la si ritrova nella sua produzione narrativa, più occasionale rispetto a quella drammaturgica, ma non per questo secondaria. Il romanzo La panne. Una storia ancora possibile (1956) o racconti come La morte della Pizia (1976) e Il minotauro. Una ballata (1985), ci restituiscono l’essenza di un autore interessato a sviscerare le dinamiche esistenziali dell’uomo in un mondo asfissiante che disprezza ogni volontà di giustizia e di solidarietà.
«Per Friedrich Dürrenmatt raccontare non è una questione di quantità: […] la grinta inventiva, la misura del grottesco, le cupe dinamiche conflittuali tornano puntualmente a intrecciarsi in una eccezionale visionarietà romanzesco che fa dello scrittore svizzero un protagonista della letteratura europea del ventesimo secolo. […] Quale che sia l’intuizione o l’idea che innesca lo sviluppo della narrazione, l’orizzonte di Dürrenmatt si colora subito delle tinte che fanno da sfondo all’immane confronto fra l’individuo e il Male. “Il solo modo per superare il conflitto è viverlo” ha detto Dürrenmatt. “L’arte, la letteratura, sono, come qualunque altra cosa, un confronto col mondo. Una volta afferrato questo, ne potremo intravedere anche il senso”»
(Dalla quarta di copertina di «Universale Economica» Feltrinelli, Milano, 1996)
Oggi vi proponiamo un racconto breve del 1943, paradigmatico di tutto ciò che Dürrenmatt è stato e sarà per sempre nel frastagliato mondo delle arti.
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LA SALSICCIA
Un tale ammazzò la moglie e ne fece salsicce. Il fattaccio si riseppe. Il tale fu arrestato. Fu rinvenuta un’ultima salsiccia. L’indignazione fu grande. Il giudice supremo del paese avocò il caso a sé.
L’aula del tribunale è luminosa. Il sole irrompe dalle finestre. Le pareti sono specchi abbaglianti. La gente è una massa in ebollizione. L’aula ne è piena. Stanno seduti sui davanzali delle finestre. Sono appesi ai lampadari. Sulla destra luccica la testa pelata del pubblico accusatore. È rossa. Il difensore è a sinistra. Porta occhiali dalle lenti finte. L’accusato siede fra due poliziotti. Ha grandi mani. Le dita orlate di blu. Su tutti troneggia il giudice supremo. La sua toga è nera. La barba una bandiera bianca. Seri gli occhi. Chiara la fronte. Irte le sopracciglia. La sua espressione è umanità. Davanti a lui, la salsiccia. Poggiata su un piatto. Sopra il giudice supremo troneggia la giustizia. Ha gli occhi bendati. Nella mano destra regge una spada. Nella sinistra una bilancia. È di pietra. Il giudice supremo alza la mano. La gente tace. I movimenti si bloccano. La sala si placa. Il tempo incombe. Il pubblico accusatore si alza. Il suo ventre è un mappamondo. Le labbra una ghigliottina. La lingua una mannaia. Le parole martellano nell’aula. L’accusato trasale. Il giudice ascolta. Fra le sopracciglia si staglia una ripida ruga. I suoi occhi sono due soli. I loro raggi colpiscono l’accusato. Questi si accascia. Le ginocchia gli tremano. Le mani pregano. Gli pende la lingua. Le sue orecchie sporgono). La salsiccia davanti al giudice supremo è rossa. Sta Quieta. Gonfia. Le estremità sono tonde. Lo spago in cima è giallo. Riposa. Il giudice supremo guarda giù, sull’infimo degli uomini. Che è piccolo. Come cuoio la pelle. La bocca un becco. Le labbra sangue disseccato. Gli occhi capocchie di spillo. La fronte piatta. Le dita grasse. La salsiccia ha un odore gradevole. Si fa più vicina. La pelle è ruvida. La salsiccia è morbida. È dura. L’unghia lascia un’impronta a forma di mezzaluna. La salsiccia è calda. La sua forma è soffice. Il pubblico accusatore tace. L’accusato alza il capo. Il suo sguardo è un bimbo torturato. Il giudice supremo alza la mano. Il difensore balza in piedi. Gli occhiali danzano. Parole saltellano nella sala. La salsiccia sprizza. Il difensore tace. Il giudice supremo guarda l’accusato. Che sta giù in basso. È una pulce. Il giudice supremo scuote il capo. Il suo sguardo è disprezzo. Il giudice supremo comincia a parlare. Le sue parole sono spade della giustizia. Cadono come montagne sull’accusato. Le sue frasi sono lacci. Sferzano. Strangolano. Uccidono. La carne è tenera. È dolce. Si disfa come burro. La pelle è un po’ più tenace. Le pareti rintronano. Il soffitto minaccia. Le finestre stridono. Le porte si scuotono nei cardini. Le mura protestano. La città impallidisce. I boschi si disseccano. Le acque evaporano. La terra vibra. Il sole muore. Il cielo crolla. L’accusato è condannato. La morte spalanca le fauci. Il coltellino si adagia sul tavolo. Le dita sono appiccicose. Scorrono sulla toga nera. Il giudice supremo tace. L’aula è morta. L’aria pesante. I polmoni pieni di piombo. La gente trema. L’accusato è incollato alla sedia. È condannato. Può fare un’ultima richiesta. Sta rannicchiato. La richiesta gli sguscia dal cervello. È piccola. Cresce. Si fa gigantesca. Si addensa. Si plasma. Disserra le labbra. Irrompe nell’aula giudiziaria. Risuona. Il perverso maniaco omicida vorrebbe mangiare quello che avanza della povera moglie: la salsiccia. L’orrore è un grido. Il giudice supremo alza la mano. La gente ammutolisce. Il giudice supremo è un dio. La sua voce è la tromba del giudizio. Acconsente alla richiesta. Il condannato può mangiare la salsiccia. Il giudice supremo guarda il piatto. La salsiccia è sparita. Tace. Il silenzio è cupo. La gente guarda il giudice supremo. Gli occhi del condannato sono spalancati. Dentro, c’è una domanda. La domanda è terribile. Fluisce nella sala. Cala sul pavimento. S’affigge alle pareti. Si rannicchia alta sul soffitto. S’impadronisce d’ognuno. La sala si dilata. Il mondo diventa un immenso punto interrogativo.
«Universale Economica» Feltrinelli, Milano, 1996, traduzione dal tedesco di Umberto Gandini.