I venerdì del Nucleo Kubla Khan – “Godi, fanciullo mio” ché la poesia t’appartiene! – La poetica del fanciullino e il surrealismo

Come fossimo spauriti, o Socrate, prova a persuaderci; o meglio non come spauriti noi, ma forse c’è dentro anche in noi un fanciullino che ha timore di siffatte cose: costui dunque proviamoci di persuadere a non aver paura della morte come di visacci d’orchi”

(Fedone, Platone – Cebes Tebano risponde a Socrate che lo invita a non temere la morte e a credere nell’esistenza dell’anima dopo il trapasso terreno)

Gli interrogativi circa la reale essenza della poesia, il ruolo della composizione poetica e del poeta nella società sono antichi tanto quanto la poesia stessa. Le risposte, più o meno accreditate, sono innumerevoli, discordi o affini tra loro e screziate di lirismo al pari dei versi stessi. Aberrando, per un solo istante, dalle troppe opinioni espresse in merito, ci soffermiamo in questa sede su un parere più che autorevole, rinomato ed emblematico come pochi.

Nel fanciullino, opera composta da 20 brevi capitoli e inserita definitivamente, dopo varie edizioni, nella raccolta Pensieri e discorsi, Giovanni Pascoli spiega come il poeta sia da considerare un eterno fanciullo, quel famigerato fanciullino che sopravvive in ogni uomo anche dopo la fine anagrafica dell’infanzia. Egli guarda il mondo col candore e lo stupore propri di quell’età e lo descrive con un linguaggio preciso, come quello di Adamo che per primo nominò il mondo circostante, capace di tessere trame tra le cose, di inventare simboli e trasmettere emozioni cosmiche. Il fanciullino che dimora nel poeta è un musico dall’orecchio assoluto in grado di comprendere l’armonia che risuona nella natura, nelle cose e negli esseri umani. Il poeta, al pari di ogni fanciullino, non appartiene a una precisa classe sociale, non è ascrivibile a nessuna ideologia, è oltre il tempo e lo spazio e si fa, inconsapevolmente, portavoce di una realtà autentica, scevra di pregiudizi, di sovrastrutture e di altre meschinità adulte.

Qual è, allora, il compito del poeta? Quale la missione della poesia?

Al poeta spetta consolare la vita degli uomini dagli affanni del “vivere da grandi”; alla poesia tocca pungolare il fanciullino che riposa in ogni uomo e liberare dai gioghi dell’esistenza gli alti sentimenti della pace, della fratellanza e dell’amore.

“È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano  che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell’età giovanile forse così come nella più matura, perché in quella occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell’angolo d’anima d’onde esso risuona.

[…]

Ma è veramente in tutti il fanciullo musico? Che in qualcuno non sia, non vorrei credere né ad altri né a lui stesso: tanta a me parrebbe di lui la miseria e la solitudine.[…] Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei . Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d’amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l’amore, perché accarezza esso come sorella (oh! Il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve), accarezza e consola la bambina che è nella donna. Egli nell’interno dell’uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell’uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive, e in un cantuccio dell’anima di chi più non crede, vapora d’incenso l’altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare la selce che riluce.

[…]

E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: Impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola. E a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta. […]

Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l’oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra. Egli, anzi, quando li trasmette, pur essendo in cospetto d’un pubblico, parla piuttosto tra sé, che a quello. Del pubblico, non pare che si accorga. Parla forte (ma non tanto!) più per udir meglio esso, che per farsi intendere da altrui. […]

Ora il poeta sarà invece un autore di provvidenze civili e sociali?

Senza accorgersene, se mai.

[…]

Così il poeta vero, senza farlo apposta e senza andarsene, portando, per dirla con Dante, il lume dietro, anzi no, dentro, dentro la cara anima portando lo splendore e ardore della lampada che è la poesia; è, come si dice oggi, socialista, o come si avrebbe a dire, umano. Così la poesia, non ad altro intonata che a poesia, è quella che migliora e rigenera l’umanità, escludendone, non di proposito il male, ma naturalmente l’impoetico. Ora si trova a mano a mano che impoetico è ciò che la morale riconosce cattivo e ciò che l’estetica proclama brutto. Ma di ciò che è cattivo e brutto non giudica, nel nostro caso, il barbato filosofo. È il fanciullo interiore che ne ha schifo.”

(Giovanni Pascoli, Il fanciullino, a cura di G. Agamben, Milano, Feltrinelli, 1996)

Il Nucleo Kubla Khan, di cui questa rubrica si vanta d’esser organo ufficioso e strampalato, ha avuto il privilegio di sentire in vivavoce (anzi, di leggere in vivoscritto) il pensiero dei bambini sulla poesia.

Nell’ambito di un progetto di riproposizione alternativa della poesia, svolto nel 2018 all’interno dell’Istituto Comprensivo Statale “T.Cornelio” di Rovito (Cosenza), i membri di questo bislacco circolo letterario, fingendosi professori per un paio d’ore, hanno chiesto ai bambini di una terza media di scrivere su un foglio, in maniera anonima, la loro personale definizione di poesia.

Il risultato dell’esperimento è stato straordinario e non ha fatto altro che avvalorare la tesi pascoliana secondo cui la poesia sia intimamente connessa alla fanciullezza di spirito. In alcuni punti, anzi, è meravigliosa la concordanza (chissà se consapevole…) che si riscontra fra il pensiero Pascoli e quello dei giovani critici poetici.

Di seguito si riportano, fedelmente, le definizioni raccolte:

La poesia e un modo per esprimere i propri sentimenti.

Per me la poesia è l’espressione delle emozioni mischiata con l’anima.

La poesia è un modo di esprimere i propri sentimenti che siano di gioia o di dolore.

Per me la poesia significa sentimento.

La poesia è un modo per sfogarsi.

La poesia è uno strumento per trasmettere messaggi ed emozioni.

Le poesie sono le parole dei sentimenti.

La poesia è una forma letteraria che è basata sulla libertà e che il poeta può deciderla d’interpretarla come uno desidera.

Per me la poesia è un pensiero che suscita sensazioni degli autori.

La poesia per me è qualcosa che serve a liberarmi di qualcosa che ho dentro, che sia brutta o bella. Preferisco la poesia al parlare con le persone, perché, alla fine dove abito io, sono tutti uguali. Almeno scrivendo posso dire quel che penso senza aver paura dell’opinione degli altri.

La poesia per me è uno “strumento” per descrivere, parlare dei propri sentimenti o comunicare ai lettori ciò che si vuole trasmettere.

La poesia può essere bella brutta e pallosa e depressa, ma…

La poesia esprime i sentimenti ma può essere brutta o bella a seconda dello sfigato che la scrive.

La poesia vuol dire esprimersi nei momenti tristi e felici.

Per me la poesia è un sentimento, una melodia, depressa, ma anche divertente.

Per me la poesia un modo per esprimere la emozioni che non riusciamo a trattenere.

È esprimere quello che pensi.

 

Non paghi dell’esito mirabile di questa prova, gli stessi membri del Nucleo (o “khani”, come si chiamano tra loro non senza vacuo compiacimento) hanno proposto ai giovani di cimentarsi nel gioco de Il Cadavere squisito, divertentissimo esperimento surrealista inventato nel 1925 a Parigi. Conosciuto anche come Cadaveri eccellenti, è un tipo di gioco cooperativo da praticare ovunque e a cui possono partecipare almeno tre giocatori.

In breve, le regole del gioco. I giocatori si dispongono in cerchio; a turno, ciascuno scriverà una parola per comporre una frase; si dovrà rispettare quest’ordine: nome, aggettivo, verbo, nome e, a discrezione dei partecipanti, ancora aggettivo, verbo. Il testo, però, dovrà essere coperto utilizzando un ritaglio di foglio: ogni giocatore, durante il suo turno, potrà vedere solo la parola scritta dal giocatore prima di lui. Quando ogni giocatore avrà scritto la sua parola, si potrà scoprire il foglio e leggere la frase ottenuta; il risultato sarà una simpatica frase di stampo surrealista.

Una curiosità: il nome di “Cadavere squisito”  deriva dalla prima frase formata dai giocatori di questo gioco. La frase era questa: “le cadavre exquis boira le vin nouveau” che si traduce più o meno così: “il cadavere squisito berrà il vino novello”. (https://portalebambini.it/cadavere-squisito/)

Queste le tre strofe composte:

La carriola irriducibile piumifica la cassapanca

la malattia viola gioca in giardino

la sedia alta va a lampadina

la poltrona gialla brucia la sigaretta

l’uccello bello dorme in macchina.

 

Laura grezza studia Einstein

il serpente astratto sfiora il quaderno

il pelo malvagio vieta l’albero

l’orecchio cieco accorda le sirene

il carrarmato crudele sfaccenda lo stambecco.

 

L’albero crudele scopa lo  scoiattolo

l’inchiostro ribelle uccide i gabbiani

il miele croccante ipnotizza la droga

il diacono urgente cosparge il piedistallo

il coniglio cattivo piscia la passerella.

 

Esperimenti, vero. Giochi, niente di più niente di meno.

E allora giochiamo anche noi.

Secondo il Rocci, storico e autorevole vocabolario di greco, ποίησιςtermine da cui ha origine il nostro “poesia”, indica l’atto di produzione, di composizione, di creazione; solo in un secondo momento il buon Lorenzo Rocci scende nello specifico artistico: arte poetica, poesia, opera poetica, poema, carme, genere poetico. Il vocabolario Treccani, alla voce “poesia”, pone l’accento, invece, sulla derivazione del sostantivo greco ποίησις dal verbo ποιέω, “fare, produrre, creare”.

Creare, a sua volta, deriva dal latino crĕare che in primis vuol dire “far crescere”.

Ma se è nell’etimo di ogni parola che risiede la sua vera essenza, se è qui che si cela il corretto utilizzo da fare di ogni lemma, come conciliare nella poesia la volontà di “far crescere” e quella di “rimaner fanciulli”?

Semplice. Facendo crescere la nostra fanciullezza interiore. Imbianchiamo e incurviamoci pure sulle ginocchia, ma con le pietre e con i bossoli di questo immondo e doloroso mondo creiamo, inventiamo, reinventiamo tutto ciò che è tristemente ordinario in un pupazzo straordinario e benvenuta sia anche la sofferenza, ma la si viva col riso e con la fionda.

Non vi risentite, talebani del verso sacro, custodi sbiaditi di quel monticiattolo di sabbia ch’è divenuto l’Elicona, depositari indiscussi e indiscutibili dell’arte poetica, stiamo solo giocando. “Perché il gioco è una cosa importante, ma loro non giocano, scherzano! Lo scherzo è adulto non è più un gioco non è bambino, quindi, non c’è nessun aspetto ludico, non c’è l’equivoco del mito”, diceva Carmelo Bene. E di quei “loro” il fanciullo “ne ha schifo”.

Forse, non tutti i poeti sono fanciulli, ma è certo che tutti i fanciulli sono poeti.

Siam diventati troppo retorici. Basta. Il fanciullo avrebbe schifo anche di noi.

Viva i fanciulli! Viva la fantasia!  Viva la poesia!

Si ringraziano l’Istituto Comprensivo Statale “T.Cornelio” di Rovito e i suoi magnifici fanciullini.

 

Nazareno Loise

 

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