“… ché un padre è sempre colpevole, sempre”
(Leonardo Sciascia, “A ciascuno il suo”)
Se nell’articolo pubblicato venerdì scorso si è provato a scendere di un paio di gradini nel rapporto fra i poeti e le proprie madri, in quello odierno si rinnova la volontà di proseguire nell’ambascioso itinerario delle relazioni parentali che percorre la letteratura da tempi immemori. È necessario premettere che, in questa sede, la par condicio non è un criterio preso in considerazione. Non nella direzione della “corretta assegnazione di eguali spazi alle parti in causa” va letta, quindi, la decisione di impiegare tempo, oggi, nella disamina (pur sempre allegramente costretta entro i limiti di spazio e di tempo) del rapporto che intercorre fra padre e figlio/autore. A chi fa letteratura (e anche a chi tenta di discuterne) interessa soltanto frequentare i sentimenti umani. Nient’altro.
Nello specifico, oggi, ci soffermeremo su una piccolissima parte di quegli esempi letterari che discretamente spalancano lo sguardo umano su un vero e proprio crocevia che caratterizza il rapporto filial-paterno: quello della morte del padre.
Essendo la cultura occidentale figlia riconosciutissima della mitologia greca, il nostro percorso inizia proprio da una colonna portante della letteratura mitologica: la Teogonia di Esiodo.
Nel poema, in cui si raccontano la storia e la genealogia degli dèi greci, si trovano descritti almeno due episodi archetipici che riguardano la tematica del parricidio (anche se solo in senso figurato). Questa tematica offre una chiave di lettura molto interessante dell’argomento di oggi e ne avvalora il senso della sua (non-)finalità.
Esiodo ci racconta di come Urano, divinità primordiale, venuto a conoscenza che uno dei suoi figli lo avrebbe detronizzato, fece fronte al pericolo scegliendo di ingoiare la sua progenie al momento della nascita. Crono, il più giovane dei Titani (figli di Urano), supplicato e aiutato dalla madre Gea, riuscì a evirare il padre e a fargli vomitare i suoi fratelli, prigionieri nel suo ventre (“… ed ecco il figlio, la manca avventò dall’agguato,/ ad afferrarlo, impugnò con la destra la falce tremenda,/ lunga, dentata, e al padre d’un colpo recise le coglie,/e dietro sé le gittò nel mare, ché via le portasse”, ibid. vv. 178-181) . Come al padre Urano, anche a Crono fu predetto che sarebbe stato uno dei suoi figli a spodestarlo; perciò, imitando il padre, quando la moglie e sorella Rea partoriva, il Titano ingoiava i figli. (“Per questo, ad occhi chiusi non stava: vegliava; ed i figli/ suoi divorava. E Rea si struggea d’amarissima doglia”, ibid. 476-477).
Alla nascita dell’ultimo figlio, Zeus, Rea riuscì a nasconderlo a Lictos, città ai piedi del Monte Parnaso sull’isola di Creta, con l’aiuto dei propri genitori Urano e Gea, e a consegnare a Crono una pietra avvolta in fasce, al posto del neonato Zeus. Quando questi divenne abbastanza grande, si rivoltò contro il padre e, aiutato da Gea, gli fece bere con l’inganno una pozione per far vomitare i fratelli (Col volgere poscia degli anni,/ tratto in inganno dai furbi consigli di Terra, di nuovo/ Crono rivomitò, l’accorto Signor, la sua prole,/ dall’arte e dalla forza domato del figlio”, ibid. vv. 493-496) . Ebbe inizio, così, una lunga guerra che vide trionfare i Crònidi (di cui facevano parte anche i fratelli di Zeus) sui Titani. Crono, assieme ai suoi fratelli, venne, così, incatenato nel Tartaro per mano dei suoi stessi figli (Vivono immersi in questa caligine oscura i Titani,/nascosti, pel volere di Giove che i nuvoli aduna,/in una squallida plaga, dov’ha l’ampia terra i confini”, ibid. vv. 727-729).
“Mio padre pretende aspirina ed affetto
e inciampa nella sua autorità,
affida a una vestaglia il suo ultimo ruolo
ma lui esplode dopo, prima il suo decoro.”
(Fabrizio De André, “Al ballo mascherato” – “Storia di un impiegato”)
Circa due secoli dopo Esiodo, nel corso del quinto avanti Cristo, il grande drammaturgo greco Sofocle fece ascendere il suo capolavoro, Edipo Re, a paradigma immarcescibile del rapporto padre-figlio
Nella tragedia, ritenuta tra i più mirabili esempi della tradizione greca, gioca un ruolo fondamentale la lacerazione imponderabile dei rapporti famigliari. Edipo è succeduto al trono a Laio e sin da subito si è dimostrato premuroso nei confronti dei suoi sudditi (come un padre nei confronti dei figli) e propenso a prendere a cuore la vicenda del delitto del suo predecessore.
La ricerca dell’assassino di Laio in quanto indagine sulla causa remota del male presente (la peste che tormenta Tebe scaturisce dall’impunità di tale delitto), diventa per Edipo (a sua insaputa) ricerca della propria vera identità. Edipo diviene una pedina in mano agli eventi e si scopre colpevole di parricidio. “Nel corso della tragedia lo status di Edipo si capovolge: da cacciatore diviene preda, da promotore attivo di un’indagine conoscitiva diventa oggetto su cui si indaga. Questo processo d’inversione si configura come processo di ricomposizione dei due “individui” compresenti inconsapevolmente nella persona di Edipo: il padre della patria e il parricida, il salvatore della patria e l’artefice della sua rovina” (Edipo Re, a cura di Rosanna Lauriola, Paravia, 2014). Edipo ha prima dovuto, seppur inconsapevolmente, uccidere il proprio genitore per divenire quel re tanto amato e considerato dai propri sudditi, e poi, in una seconda fase, prendere coscienza del suo parricio e comprendere, in maniera chiara e definitiva, la sua vera identità. Nell’opera sofoclea, il parricidio (inteso in senso non più figurato come fu nella Teogonia) diviene strumento di disvelamento della verità e della ricomposizione della propria identità. In sostanza, la morte di un padre, quand’anche non fosse perpetrata per mano filiale delittuosa, acquista, da Sofocle in poi, una valenza epifanica e cruciale nella vita dei figli.
E se, come pare, le voci dei grandi non sono altro che la polifonica espressione di un’unica grande ed eterna mente, altri non poteva essere che William Shakespeare a riprendere il discorso inaugurato da Sofocle e a iterarlo in riconsacrata immortalità. Secondo il critico Giovanni Testori: “La vera struttura dell’Amleto è la totalità con cui ripropone il cuore del problema umano, è quella suprema domanda sul senso dell’esistere. Questa domanda, poi, non è posta in termini astratti, ma è urlata dentro il rapporto tra padre e figlio che è luogo realistico, carnale, umano”.
Nell’opera shakespeariana, il personaggio dello spettro del padre (di cui, non a caso, il protagonista porta lo stesso nome) è di fondamentale importanza, giacchè tutta la trama si sviluppa come conseguenza delle rivelazioni che lo spirito fa a suo figlio e agli altri personaggi. Come fu per Edipo, seppure in termini e in contingenze radicalmente differenti, anche nella tragedia del “Bardo dell’Avon” è lo spettro di un padre, questa volta inteso in un’accezione più materiale (venga perdonato il deliberato ossimoro), a condizionare la vita e le scelte di un figlio. La morte del genitore, ancora una volta, si mostra come suprema e imperitura ingerenza, dal momento che, anche in non-vita, i padri influenzano i figli e, forse, anche in maniera più accentuata di come poteva essere nella non-morte. I padri continuano ad esercitare il loro potere, a volte assoluto a volte relativo, sui figli, allegiando sulle loro esistenze (da loro stessi sancite prima e irrimediabilmente affralite dopo) come spettri.
Per essere spettri, però, i padri devono prima morire. Passaggio obbligatorio è, quindi, quello del capezzale, luogo/non-luogo ampiamente confessato e affrontato nella letteratura.
Si è qui scelto un unico exemplum in grado di farsi portavoce di tutti gli strazianti e mirabili passaggi di letteratura che trattano il momento della dipartita del genitore (“Questo giorno ti darà la vita e te la toglierà” Sofocle,“Edipo Re”, Tiresia a Edipo, v. 438).
Scrive Italo Svevo ne La coscienza di Zeno: “Piangevo perché perdevo il padre per cui ero sempre vissuto. Non importava che gli avessi tenuto poca compagnia. I miei sforzi per diventare migliore non erano stati fatti per dare una soddisfazione a lui? Il successo cui anelavo doveva bensì essere anche il mio vanto verso di lui, che di me aveva sempre dubitato, ma anche la sua consolazione. Ed ora invece egli non poteva più aspettarmi e se ne andava convinto della mia insanabile debolezza. […] Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre debole e buono come l’avevo sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello schiaffo che m’era stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto. Divenni buono, buono e il ricordo di mio padre s’accompagnò a me, divenendo sempre più dolce. Fu come un sogno delizioso: eravamo ormai perfettamente d’accordo, io divenuto il più debole e lui il più forte”.
(Italo Svevo, “La coscienza di Zeno”, Feltrinelli, 1993)
“Invecchiando trovo in me particolari di lui, alla mia età di adesso:
qualche segno delle mani, un’espressione allo specchio, un tono di voce.
Questa cosa non mi piace per niente.
[…]
Non ho mai condiviso le scelte di mio padre.
L’ho odiato cordialmente.
Da sempre.
Ora che non c’è più, sono sereno.
Ho risolto le cose che avevo in sospeso”
(Offlaga Disco Pax, “Venti minuti” – “Bachelite”)
Concludiamo partendo dall’inizio. Dal brano, cioè, che ha fatto scaturire questo effluvio di parole.
Vita e morte di un ingegnere è un romanzo di Edoardo Albinati, pubblicato da Mondadori nel 2012, che alimenta oggi, assieme ad altri, il pluri-secolare discorso letterario intorno al rapporto padre-figlio (a tal proposito si consiglia questa lettura.
“A cosa serve un padre? E cosa resta di lui se non un mito? C’era una volta un’Italia attiva e industriosa, attraverso cui scorrazzavano sulle loro Alfa Romeo uomini di multiforme ingegno: gli imprenditori. L’ingegner Albinati era uno di questi, prototipo di una razza al tempo stesso serissima e scanzonata, di pionieri del benessere e fumatori accaniti. In una memoria di crudele precisione, nutrita di tutto il risentimento e dell’amore che si può nutrire verso un padre che non hai abbracciato una sola volta in vita tua, Edoardo Albinati racconta la lunga fuga di un uomo talentuoso attraverso i corridoi del boom economico, l’amore, i doveri della famiglia, le aspirazioni segrete e indicibili, e poi la malattia che obbliga a chiedersi: chi sono? Cosa ho vissuto a fare? Chi ho amato veramente? Il ritratto vivo di una generazione di uomini instancabili che hanno ricostruito l’Italia, pagando questa loro impresa con un’incolmabile distanza dai loro figli. Una parabola umana grande e dolorosa in cui molti potranno riconoscere tracce della propria storia”.
(Dalla quarta di copertina di “Vita e morte di un ingegnere”, Edoardo Albinati, Mondadori, 2012).
Di seguito il brano estratto da questo bellissimo libro, di cui Biblon vi consiglia accoratamente la lettura.
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“Durante quel periodo pensai poco a mio padre. Bighellonavo tutto il giorno, dormivo, mangiavo, facevo qualche lezione a studenti ignoranti e lavoravo quasi in trance, aprendo un quaderno a spirale per aggiungervi poche righe piene di cancellature, guardavo gli alberi, le insegne dei negozi, il cibo nel mio piatto, le nuvole in mezzo al cielo di Brooklyn con avidità e attenzione, come se volessi fissarmi nel mondo circostante e lasciare che esso assorbisse nella sua materia concreta, asciugandoli, i versamenti del mio essere, le sbavature di preoccupazione che in Italia ovunque andassi mi lasciavo dietro come la striatura di una lumaca. Mi spurgavo dall’angoscia. Malgrado mi trovassi in uno dei luoghi più nevroticì del mondo (New York non è esattamente una stazione climatica né un monastero) a paragone di ciò che avevo lasciato in Italia tutto mi appariva sereno, l’aria splendeva luminosa e netta, persino gli spigoli degli edifici li ammiravo come se non ne avessi mai visti di così precisi. Vedevo le cose terribili e le cose grandiose (che lì sono accostate con brutale casualità), riuscendo a distinguerle con chiarezza e ad accompagnarle dentro di me con un commento che mi dava un segreto piacere, una selvaggia felicità, senza rendermi como che questa rinnovata capacità di egoismo derivava dall‘essermi lasciato alle spalle il grumo della malattia di mio padre, ovvero ciò che non ero affatto in grado di spiegare e a cui non potevo porre alcun rimedio, l’acqua che una volta infangata non torna mai limpida, il problema che mi si annodava alla gola, che mi impediva di vedere e di ragionare, strangolava ogni comprensione in me, annebbiava la mia mente, mi annoiava, mi imbarazzava, mi indeboliva assoggettando il futuro alla sua legge priva di senso. A Brooklyn invece le contraddizioni erano esterne a me, esibite e, per così dire, plasticameme afferrabili. Ero solo. Non avevo l’assillo di come rendermi utile, non mi ponevo domande senza risposta, nessuno mi domandava con occhi severi perché un giorno dopo l’altro stesse morendo, e a quelli che lo facevano, ai senza casa, agli sciancati, ai mocciosi con le braccia a moncherino, ai luridi mendicanti che scuotono come maracas i bicchieri di cartone della pepsi pieni di spiccioli, ai mentecatti e ai lebbrosi e ai negri divorati dalla tosse che svernano nei tunnel della metropolitana e quando viene caldo sciamano in superficie a mostrare le croste, alla fauna febbricitante che poteva in varie forme replicare l’immagine infelice di mio padre, io rivolgevo uno sguardo ardito, politicamente comprensivo, ma freddo e raziocinante. Finalmente dei problemi non miei! Finalmente delle condizioni oggettive, come si diceva una volta, strutturali! Finalmente dei pensieri sgradevoli ma circostanziati, una paura concreta, che veniva da bande di teppisti e non da un incubo interiore. Preferivo affrontare i tagliagole appostati su Flatbush Avenue alle tre di notte piuttosto che il pensiero diluito della morte di mio padre. Avevo molte più probabilità di cavarmela di quante ne avesse lui. Le piaghe degli sconosciuti non mi infettavano. Il disordine del mondo provocava un furore freddo, descrittivo, come se fossi emerso da un bagno tonificante in qualche vecchia poesia di Bertolt Brecht. In Italia mi ero agitato invano nella palude dei rimorsi, col risultato di sollevare altro fango dal fondale, la viscida sostanza delle piccole offese e dei risentimenti nei confronti di mio padre, allontanandomi da lui mentre cercavo di soccorrerlo, potevo solo guardarlo affondare, era come la scena lentissima di un sogno, non potevo fare nulla, scalciavo a vuoto nei ragionamenti, pensavo che la sua fine si stava avvicinando e io non lo avevo capito, non ci avevo mai parlato sinceramente, non lo avevo mai abbracciato forte, non ero in grado di aiutarlo a sopravvivere e nemmeno a morire in qualche maniera consolato, allungavo le braccia ma le sentivo scariche, avevo voglia di andarmene ma dovevo continuare a guardare, lui sprofondava davanti ai miei occhi, era già immerso fino alla cintola nella tomba e intanto chiacchieravamo del tempo o di chissà quale altro surrogato, mentre se ne andava giù un altro po’, e stava ormai per scomparire, sapevo che non l’avrei mai più visto, che era morto, morto, morto come un faraone di tremila anni fa, freddo e lontano come la sua mummia, scomparso, cancellato per sempre, e di colpo sapevo che quello era l’ultimo istante in cui l’avrei avuto vicino a me, prima che la tomba si richiudesse su di lui, ancora vivo e vicino, mio padre, il mio genitore, ancora vivo e capace di carezzarmi con la sua mano tiepida e dirmi qualcosa, e mentre in quell’istante capivo che la mia vita sarebbe andata perduta assieme alla sua, mio padre faceva qualche ironia sul fatto che ero spettinato, o malvestito, lanciava una debole battuta e queste erano le sue ultime parole”.
(Edoardo Albinati, “Vita e morte di un ingegnere”, Mondadori, 2012)
Non vogliamo, in questa sede, inoltrarci in considerazioni emotive sulla perdita di un padre. Non gioverebbe a nessuno e nessuno ce lo ha chiesto.
Si rimanda tutto alla letteratura perché, statene pur certi, ovunque troverete scritto di questo rapporto straordinariamente criminale e appassionato che lega un padre al proprio figlio.