La Tregua – Appunti di una lettrice su Mario Benedetti

Dopo l’ultima pagina de La Tregua, alzi lo sguardo al cielo e ti chiedi: “E se il mare fosse Dio?”

In una sola frase, ma così tanto evocativa, credo si possa riconoscere tutta la terribile tensione religiosa di Mario Benedetti, incarnata nella storia di un uomo che va verso la fine che, in qualche modo, cerca la sua fine. Cos’altro vuole altrimenti, una persona che a quarantanove anni smania per un pensionamento che lo getterà in un ozio senza sfogo, senza attese di piacere, apatico e triste?

La metafora del dio-mare è l’immagine di un Dio perennemente presente e pur così immutabilmente silente, insensibile, incurante dei fatti dell’uomo, ai quali assiste senza intervento, rimanendo “alieno”, lasciando ognuno “sulla propria riva”. Eppure, quanto si lascia amare, il mare! Senza odio e senza amore, perché non dicendosi, non concedendosi, non si fa affermare e neppure negare.

Dio, come il mare, è una “remota solitudine” in cui l’autore/protagonista non ha accesso. È un “sadico onnipotente” che non concede felicità, ma solo una (flebile?) tregua all’oscuro destino.

Ho ritrovato il mio Leopardi tra queste immense pagine, la sua smania di felicità nella consapevolezza di una fine pur sempre tragica. Una pacata accettazione della morte, un continuo e sincero dialogo con la propria coscienza, senza sconti, senza nascondimenti, che trova un suo conforto nell’originale teoria dell'”equidistanza”, ovvero: restare equamente distanti dalle tragedie come dalla felicità. Una spaventevole, morigerata equidistanza che si traduce in una consapevole rinuncia all’entusiasmo. È quel che manca a Martin Santomè: l’entusiasmo. Fino all’arrivo di Avellaneda che, da subito si presenta quasi come il fantasma di una felicità possibile, un ologramma dell’idea di amore. Ridona al “nostro” un pacato ottimismo ma sempre realisticamente limitato dal tempo della vita, sempre più corto, sempre più breve. Un tempo di vita che, se non è assimilabile al Piacere, non ha ragion d’essere.

Tra le suggestioni, una frase che ritroviamo ripresa pedissequamente in Elena Ferrante nel secondo volume della sua saga delle amiche napoletane e un sublime richiamo alle lacrime e al pianto che riporta alla mente quel mirabile Le lacrime degli eroi di Matteo Nucci, altro libro che tanto ci ha convinto:

“Quando ci si sente luminosamente infelici allora sì che vale la pena piangere (…)in pubblico” (p.117).

Attenzione, dunque: libro struggente.

 

 

Alba Battista è giornalista pubblicista, insegna Lettere ai preadolescenti e legge libri. Ogni tanto ne scrive anche, in punta di matita e su taccuini intimi. Ha studiato a Napoli all’Orientale e ha conseguito un dottorato a Cosenza, dove vive.

 

 

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