Il romanzo dell’anno, edito da La Nave di Teseo (2019) e scritto da Giorgio Biferali, evoca un amore epistolare tra Livia e Niccolò.
È un romanzo che ci permette di riflettere su sentimenti importanti come l’amore, la paura, la perdita e il dolore.
Abbiamo rivolto alcune domande a Giorgio Biferali, il quale ci ha parlato proprio di amore e paura, contrastanti fra loro ma necessari per chi scrive e vive, fino in fondo.
Il romanzo dell’anno è una lunga lettera d’amore, che ricorda un diario ben custodito nel più prezioso tra i cassetti. L’amore può essere un elastico per la resistenza alla paura di perdere qualcuno?
L’amore può essere qualsiasi cosa, può anche spingere uno come Niccolò, che non ha mai scritto nulla in vita sua, a cercare rifugio nella scrittura, a trovare nelle lettere la migliore forma di sopravvivenza possibile. E l’elastico è proprio lì, nel sentimento che ci mette, che lo porta a ricordare la vita con Livia, a farla diventare un personaggio anche in un presente che però non la comprende, a mantenerla in vita per sempre.
In una intervista chiesero a Philip Roth perché scrivesse e lui rispose “scavo una buca e la illumino con una torcia”. Tu, Giorgio, perché scrivi?
La vedo un po’ come Roth, solo che la buca sono io, e anche la torcia, a pensarci bene. La scrittura per me è una forma di autoanalisi, di salvezza, di fuga e di ritorno al quotidiano, che il più delle volte non mi basta e sento che vorrei aggiungerci qualcosa di mio. E poi, quando scrivo, mi trovo in una dimensione che nessuno conosce, in cui nessuno può farmi del male.
Nel tuo romanzo ci sono eventi importanti di cronaca che vanno ad intrecciarsi con la vita spezzata di Niccolò: dalla violenta morte di Giulio Regeni al suicidio di Tiziana Cantone, la ragazza che fu colpevolizzata e vessata per essersi lasciata riprendere in un atto sessuale con un omuncolo; poi gli attentati terroristici di Nizza e Bruxelles, l’incombente politica di Trump, l’orrore della guerra in Siria, il terremoto di Amatrice. È un senso di compiutezza quello che si prova o che si immagina di provare quando si racconta la vita che scorre a qualcuno che non può viverla?
E di ordine, anche. La vita, per Niccolò, il quotidiano, è sempre stato fatto di lui più Livia, di lui insieme a lei. L’idea, il pensiero che questo non sia più possibile fa perdere l’equilibrio a lui, e al mondo che ha sempre vissuto. Quindi, così come quando si fa un elenco, fare un resoconto del tempo che passa alla persona che ami (che però non è con te) significa volerla coinvolgere a tutti i costi, renderla partecipe della tua vita, di quello che vedi, di quello che senti, com’è sempre stato. E quel tempo, che prima era di tutti, scrivendo diventa il tuo tempo, e puoi fermarlo, ingannarlo, giocarci quanto vuoi.
Hai vissuto una sorta di “epifania” prima di scrivere questo romanzo?
Sì, anche più di una. In libreria, mentre stavo comprando un’agenda per l’anno successivo, ho pensato che avrei voluto scrivere il romanzo di un anno, un romanzo che oscillasse tra i fatti pubblici e quelli privati di un gruppo di ragazzi, nell’arco di un intero anno. O in macchina, mentre giravo per la città e leggevo i messaggi d’amore colorati sui muri, che mi sembravano delle lettere a cielo aperto.
Si pensa che tutti abbiano una strada da percorrere, c’è chi vede la vita come un viaggio, forse perché esiste sempre una strada che porta al mare. Tu come immagini la tua?
Io la vedo come la lancetta lunga di un orologio, provo a fissarla per vedere se si muove, ma niente. Dopo un po’, però, mi accorgo che si è mossa. “Alle volte uno si sente incompleto ed è soltanto giovane”, diceva Calvino. Be’, io spero di sentirmi sempre così, incompleto, cioè vivo.
Rebecca Maria Sdoia