Ritorna su Biblon, e ne siamo contenti, Pietropaolo Morrone (qui il suo precedente racconto).
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Buona lettura!
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Era la prima ostia che ingoiavo, anzi che lasciavo sciogliere in bocca. Ero un bambino, avevo sicuramente meno di dieci anni. Mi si era appiccicata al palato come una cozza, pian piano prendeva quella forma concava. L’ho lasciata sciogliere in bocca. Anche il sapore era sottile, tanto sottile che non sapeva di niente. Forse perché era scondita, ho pensato. Prima di tirare lo sciacquone, in bagno, ho guardato a lungo il prodotto. Mi sono chiesto dove poteva trovarsi l’ostia, se poteva esserci qualche particolare da farmi capire dov’era finita. Non pensavo che potesse diventare merda normale, almeno un segno, me lo sarei aspettato. Sono stupidi pensieri che vengono ai bambini, forse solo ad alcuni, ma insomma era uno stronzo come un altro, l’ostia era rottamata alla perfezione, un wengé uniforme, come direbbe un venditore di mobili, o un marrone-tutto-uguale, come direbbe un bambino, il me stesso di allora. Del resto, il mio stomaco era giovane, macinava tutto come una mulazza. Mi sono detto che forse non si notava nulla, in quell’estrusione, perché l’ostia non era consacrata, o benedetta, come si dice; però era destinata alla benedizione, non poteva essere come un qualsiasi altro cibo.
Le cose andavano così, noi bambini, a fine Messa, chiedevamo al prete se era possibile assaggiare l’ostia; insistevamo, domenica dopo domenica, fino a farlo cedere. «Ma mica ve la posso benedire», rispose un giorno, invece del solito «No». Per noi non aveva nessuna importanza, ci interessava solo l’ostia, la materia, l’unica cosa che un bambino desidera veramente; la merce che vendevano i preti non era minimamente comprensibile per noi, così come tutti i concetti astratti — l’amore per noi era una carezza, un bacio della mamma; la paura era il professore che ti dava un voto cattivo, o tuo padre che urlava a tavola; la felicità era scartare un regalo e poi giocarci fino a farlo a pezzi, anche farlo a pezzi era plasmare la materia —. Eravamo invidiosi di quella lunga fila in attesa dell’ostia, durante l’Eucarestia, di quelle persone col capo inclinato, e le mani giunte, che avevano la possibilità di assaggiare quel misterioso e impalpabile cibo, sottile al punto da essere al confine tra la materia e il nulla, mentre il coro intonava canti noiosi accompagnati da un organo mezzo stonato. Eravamo ancora più invidiosi del prete, a cui toccava l’ostia più grande, insaporita con vino, che a noi era sempre negato a tavola. In realtà, come scoprii qualche anno dopo, ai tempi della prima comunione, neanche l’ostia benedetta trovava tracce nel prodotto. Un amico diceva che era perché la benedizione doveva restare nel corpo, non poteva finire nel cesso, altrimenti a che serviva? Mi sembrava un ragionamento corretto, dal contenuto teologico non meno valido di altri concetti che riempiono i libri, o che ti propinano al catechismo, anzi c’era almeno un tentativo di indagine sperimentale, quasi galileiana, delle esperienze religiose. Erano molti i dubbi che ci venivano in mente durante quegli incontri della domenica pomeriggio, in sagrestia, quando il prete ci preparava per la prima comunione. Non capivamo perché Gesù avesse due padri, Dio e Giuseppe, non capivamo la creazione, dato che c’era stato il big bang. Insomma, qualcuno doveva averci detto delle cazzate. E poi c’era la verginità della Madonna, una cosa incredibile per noi, che avevamo già cominciato a toccarci guardando le VHS porno, che sapevamo benissimo da dove veniva fuori un bambino, e ci chiedevamo perché dovesse essere vergognoso per il bambino Gesù nascere come noi tutti. È importante quello che fa uno nella vita, non da quale buco esce. E quando lo chiedevamo al prete, cominciava a parlare a lungo e il discorso diventava così diluito che non riuscivamo a capire niente. L’unica spiegazione possibile, pensavamo, anche se ci siamo vergognati di parlarne col prete, che rendesse compatibile l’imene intatto con il parto, era che il bambino fosse uscito dal culo. Al culo non si può applicare il concetto di verginità. Resta sempre uguale, e questo vale per tutto ciò che è in ingresso così come tutto ciò che è in uscita. Ci pareva di aver raggiunto una conoscenza che neanche il Papa aveva capito. E ce la tenevamo per noi, per divertimento, un po’ per vergogna, come un Mistero, il più misterioso dei misteri.
(c) 2021 Pietropaolo Morrone
Mi chiamo Pietropaolo Morrone. Sono un docente universitario, lavoro nel campo dell’energia presso l’Università della Calabria, sono diplomato al conservatorio in chitarra classica e scrivo. Ho frequentato corsi di scrittura, pubblicato articoli scientifici, racconti in antologie (Memoracconti3, 2014, Memori; La valigia esplosa, 2013, Coessenza; La città invisibile, 2014, Coessenza; Il coccodrillo e la scarpa, Il filorosso), ebook (Il trattamento e altre storie, Teomedia, 2019) e una favola musicale (Il coccodrillo e la scarpa, Il filorosso, 2016) per quartetto d’archi, flauto, clarinetto e voce recitante. Il mio racconto “Un chilo di roba” è stato selezionato per la seconda serata della quinta edizione del concorso letterario 8×8, nel 2013 (casa editrice madrina Elliot). Ho scritto il mio primo romanzo e sono in cerca di un editore che ci creda.