Ancora a proposito di scrittura come terapia.
Perché poi quest’argomento mi punge tanto? In fondo non sono uno scrittore, tuttalpiù sono un lettore medio. Ma come ogni lettore medio sono anche un aspirante autore medio(cre), in (relativa) vista solo perché ho una connessione internet.
Nella pantomima che è la vita, fingo la posa si autore in nuce. Allora mi pongo domande che non sono mie, che non mi appartengono.
Riconoscerlo è un primo passo, direbbe uno psicoterapeuta. Sì, ma il secondo passo quale sarebbe? E se c’è un cammino, c’è anche una meta?
Dunque: mi pongo questa domanda (la scrittura deve essere terapeutica?) e me ne pento, perché sento di star mancando il bersaglio.
Certo, scrivere può aiutare (non è la regola, ma è una possibilità), ma la scrittura come terapia psicologica non ha nulla a che vedere con una scrittura destinata anche ad un pubblico (“scrivo principalmente per me stesso”, certo, ma poi ti fai leggere da chi non ti conosce, e quindi come la mettiamo?).
Nelle mie psicoterapie, non mi è mai stato proposto di utilizzare la scrittura, ma di vivere la quotidianità modificando le situazioni che mi procuravano ansie ecc. Se una delle mie psi mi avesse chiesto di scrivere, non lo avrei fatto: sono vanitoso, narcisista ed egocentrico: avrei voluto un pubblico più vasto.
La nostra (nostra di Biblon) Veronica Giuliani, dopo un lutto, ha scritto la sua Cosmologia del male, nata da un bisogno di mettere su carta la sua condizione depressiva e le sensazioni dell’ “anno magico” di un grave lutto che l’ha colpita. Eppure il diario è sfumato all’istante, appena ha scritto la prima frase del suo romanzo. Quello che fa la scrittura, è trasformare, mistificare (questo verbo mi piace tantissimo), fingere, mascherare. Nulla, nella storia che ha scritto, è reale. Eppure, proprio per questo c’è un dolore reale e indicibile (termine abusato, lo so. Certa letteratura talmente indicibile che da decenni se ne scrive senza sosta…).
La scrittura è un volo pindarico, è un esercizio di paradossi, è buttarsi da un aereo senza paracadute per la curiosità di versi spiaccicare sul terreno.
Ecco, ancora una volta non ho centrato il punto, lo sento.
Mi sono buttato senza paracadute e aspetto lo schianto. Ma dove cadrò, non riesco nemmeno a immaginarlo.
p.s.: questo pezzo è dedicato a mio padre, che sei anni fa mi (ci) lasciava da solo in questo inferno.
Giovanni Canadè
come tutti, soggetto alla gravità terrestre