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“Un gorgo di acqua limpida. un vortice che non dà l’impressione di pericolo, ma piuttosto di serenità, tanto l’acqua è luminosa, scintillante.
A un certo punto, una goccia di sangue.
Il vortice non ha difficoltà a portarsela via, giù, ma poi eccone un’altra. E un’altra ancora.
Le gocce cadono, sempre più veloci, l’acqua fatica a rimanere limpida. finché un vero e proprio fiotto di sangue la sommerge: ora il vortice è rosso.
Poi le gocce cominciano a non cadere più, e l’acqua riesce a respingere in basso il rosso, il sangue.
A poco a poco torna limpida, come prima.
Dissolvenza in nero.”
Se Dellamorte Dellamore, scritto nel 1983 e pubblicato per la prima volta nel 1991 giocava coi linguaggi del cinema e del fumetto, Nero. (Camunia, 1984) ci porta direttamente sullo schermo cinematografico.
Tiziano Sclavi inizia la stesura del romanzo nel 1984 ma lo interrompe subito dopo. Lo riprende e lo termina qualche anno più tardi, nel 1992, accompagnando in libreria l’uscita del film che ne viene tratto, diretto dal regista Gianfranco Soldi e interpretato da Sergio Castellitto e Chiara Caselli. A parte qualche lievissima modifica, il romanzo di Sclavi funge anche da sceneggiatura. Eppure Nero. (il punto non è un refuso, va scritto proprio in questo modo!) mantiene allo stesso modo lo status di romanzo.
Dopo il misterioso incipit, il nostro sguardo diventa quello della macchina da presa, che, come scrive il narratore, “con un rumore di motore che si avvia, lo sguardo sembra mettersi in moto” e si avvia in una viuzza, dietro l’auto in cui un uomo attende l’arrivo di una donna. L’uomo è nervoso, fuma e l’attesa lo tiene sulle spine, rivelandoci già da subito le sue paranoie.
Nella scena seguente siamo nell’appartamento di Zardo (così è scritto sul campanello della porta), dove Francesca sta raccogliendo le sue cose per lasciare la casa. Dal bagno, Zardo le dice che se lei andrà via lui si ucciderà. Ma lei non lo ascolta e raggiunge il suo nuovo amante, in macchina.
Una volta a casa del nuovo amante, Francesca si rende conto d’aver dimenticato la sua crema anticellulite e riesce a convincere l’uomo, totalmente devoto alla sua nuova donna, di andare nella vecchia casa a riprenderla.
L’uomo, dopo vari tentennamenti, entra in casa e scopre il cadavere di Zardo, con la gola tagliata. Convinto che sia stata Francesca ad averlo ucciso, smembra il corpo per occultarlo in una valigia.
Nero. parte come un romanzo noir, predisponendo le basi tipiche del genere: due amanti e un ex, la femme fatale, un uomo succube della donna e un cadavere che deve essere nascosto. Ma Sclavi, nella sua narrativa, ha sempre giocato con i cliché, li ha utilizzati, smontandoli e rimontandoli per ricostruire il suo giocattolo narrativo donandogli nuovi significati. D’altronde, era lo stesso metodo utilizzato in Dellamorte Dellamore (di cui abbiamo parlato qui), inserendo all’interno del suo “giocattolo” letterario i cliché del gotico quali il cimitero, i morti viventi, i fantasmi, e tutto l’armamentario tipico di certa narrativa. Lo stesso procedimento Sclavi lo adopera in quasi tutti i suoi romanzi (tranne che ne Le etichette delle camicie e in Non è successo niente in cui Sclavi anticipa, almeno in Italia, quella che sarà chiamata, dopo pochi anni, autofiction).
All’interno di Nero. dunque, troviamo gli elementi della narrativa nera a cominciare dall’impianto, chiaramente ispirato al primo film dei fratelli Coen, Boold Simple del 1984 (forse Sclavi inizia il romanzo proprio a ridosso della visione del film?), ma poi il tutto prende una piega diversa: il romanzo è infatti una riflessione sull’identità, sulla sua ricerca e sul suo dissolvimento.
“Nero. è un romanzo psicologico […] Sclavi scava nella personalità nevrotica e paranoica del suo protagonista, la mette a nudo, ne fa uno dei personaggi che conosciamo meglio, una figura delineata in tutte le sue sfaccettature. Eppure, non sappiamo mai che cosa pensa: Sclavi non ce lo dice mai.” (Tiziano Sclavi, Daniele Bertusi, Cadmo, 2000). Tanto che, quando il protagonista, per l’unica volta in tutta la storia formulerà un pensiero, lo stesso narratore lo sottolineerà, anzi lo scriverà in maiuscolo, stupendosi egli stesso.
Un romanzo sull’identità, dunque. Il protagonista, del quale all’inizio non conosciamo il nome, dopo aver ripulito il sangue dall’appartamento e aver indossato gli abiti morto, prenderà il suo nome e per tutti, narratore compreso, quell’uomo diventerà Zardo: “D’ora in avanti anche noi lo chiameremo Federico Zardo, ubbidendo al suo inconscio e al suo destino.”
L’averne assunto il nome provocherà un cambiamento del suo destino. Perché in Sclavi la parola è creatrice, trasforma la realtà. In Tre (Camunia, 1988- Periplo, 1997), ad esempio, basta che una madre dica del proprio figlio d’essere solo ferito e non morto per farlo resuscitare. Oppure in Dellamorte, quando il protagonista afferma d’essere stanco per convincere il narratore a far tramontare il sole.
In Nero. lo scambio del nome diventa cambio di personalità, addossandosi anche la storia dell’altro uomo.
“Da quel momento il protagonista ha due padri, due madri, due case, due vite, ma un solo nome da dividere con qualcun altro. Seppellire il corpo del morto non significherà più solo cancellare le prove di un omicidio, ma far sparire il suo doppio, la sua precedente personalità, per rimanere l’unico depositario di diritto di un nome, per essere, in definitiva, una persona.” (Tiziano Sclavi, Daniele Bertusi, Cadmo, 2000)
In questa ricerca di se stessi, prende il via una serie di situazioni grottesche, che, ancora una volta, giocano coi luoghi comuni: la valigia col cadavere che scompare e riappare, un contadino che sembra morire ma poi si scopre essere vivo; un laido investigatore privato che ricatta Zardo quello vero (sempre se i concetti di “verità” e “finzione” hanno ancora un senso, nell’universo narrativo di Sclavi), e Zardo che si lascia ricattare anche se logicamente vengono a cadere le basi del ricatto.
Zardo insegue la propria identità che non si consolida, sempre più confusa, giungendo alla fine a incontrare un boss mafioso a sua volta in cerca di un nuovo volto.
Un circo, una sarabanda di scambi di persona, una commedia degli equivoci, o forse una tragedia degli equivoci: Nero. è un labirinto, un giallo senza l’assassino, un thriller pieno di colpi di scena e scene splatter. A seguire le vicende del personaggio Zardo, sembra di assistere alle comiche del cinema muto, a quelle di Buster Keaton che “costruisce le sue gag sull’incapacità di capire la causa delle proprie disgrazie, e continua a cercare soluzioni-tampone per gli effetti che esse stesse provocano” come fa giustamente notare Daniele Bertusi.
Nero. è un romanzo grottesco e disturbante che provoca il riso, il sorriso, l’inquietudine. Zardo sembra un personaggio di Kafka dei nostri tempi.
Nero. è un romanzo che usa il cinema e il suo linguaggio estetico e tecnico: frequente l’utilizzo di carrellate, zoom, flashback e flashforward. Ma è anche un romanzo metanarrativo: in più punti, alcuni personaggi di contorno emergono con allusioni non solo alla vicenda che sta vivendo il protagonista, ma alla storia in sé, alla struttura nella quale si trovano tutti coinvolti. Della quale anche noi lettori siamo implicati, come fossimo dèi che osservano il destino di uomo alla ricerca di se stesso che finisce nel labirinto senza uscita della sua esistenza.
Nero. è un romanzo circolare che si chiude con una beffa finale, a sigillare il tragico destino di un uomo già condannato all’inizio.
Giovanni Canadè