“Un uomo allo scoperto. Il riflesso di sé negli altri. Il riconoscersi degli altri nelle manifestazioni del sé. Parole quotidiane nell’atto di condivisione consapevole e involuto del destinarsi per nutrimenti umani e terrestri. Poesie d’amore e di morte dal verso sciolto o zigrinato. Ritmi, suoni, metropolitani o d’evocazione. Il singhiozzo della sincope, il canto dei chiasmi, l’ostinazione dell’anafora, l’ubriachezza della metafora. Parlare spezzato, frammentario, dionisiaco. Per memoria collettiva. Segni.” (dalla quarta di copertina)
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Oggi dialogherò con Emilio Nigro sulla sua ultima raccolta di poesie, Spezza il pane. Edito quest’anno da ERETICA Edizioni ha per protagonista “un uomo allo scoperto” che scopre “il riflesso di sé negli altri” e insegue o è inseguito dal “riconoscersi degli altri nelle manifestazioni del sé”. Nigro, oltre a essere poeta, è critico di teatro, drammaturgo e scrittore di racconti. Definisce, molto originalmente, la poesia come “il primo vagito”.
Ciao Emilio. Spezza il pane è la tua ultima raccolta di poesie. Vorrei con te soffermarmi su ognuna delle quattro parti in cui questa è suddivisa. Nella prima, Il mestiere del poeta, i tuoi versi si biforcano in due direzioni parallele: l’asserzione della concezione artigianale della poesia (non essere poeta ma praticare l’attività che avrebbe quindi in Euterpe il suo datore di lavoro); l’accusa nei confronti di un “loro” ( espediente lirico tra i più amati da poeti) su cui riversi la tua diversità e su cui rifrangi le screziature della tua autoriconosciuta incompatibilità con i destinatari degli strali stessi. Perché, secondo te, un poeta esercita e non è la sua poesia? Chi sono, poi, questi “altri che fanno la vita”?
Se si domanda ad un teatrante cosa sia il teatro, anzi, cosa è per esso fare teatro, non saprebbe e non potrebbe rispondere. A dirlo era Strehler, non un recensore qualsiasi. La riluttanza dallo spiegare cosa si scrive, è così comprensibile che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni… La poesia è un linguaggio. Come tale ha la sua necessità d’espressione. Sociale, più che idiomatica. Sono i versi (intesi in senso fonetico, espressivo) di comunicazione fra individui. Non mi è mai interessato ostentare una diversità o contrappormi ad un “loro”. Osservo, assimilo, percepisco e scrivo. È il mio modo di entrare in contatto con gli altri. Non farne cernita o bersaglio. Piuttosto rete. Mi rendo conto questo non è immediatamente intellegibile, soprattutto se si legge con sovrastrutture estetiche, etiche e di erudizione. Presunta soprattutto.
Nella sezione successiva, Paesaggi prolungati, i rimandi alla cultura classica (Itaca, Medea) si accompagnano a una maggiore geograficizzazione dei luoghi versificati (Gallipoli, Firenze) mentre assieme ai paesaggi si prolunga anche il tuo sentire. In alcuni casi, però (“il cicalare in fondo alle bottiglie”; “sono chiuso/in un aereo di carta”) la tua visione sembra quasi rinchiusa e coercizzata. Claustrofobia e larghi orizzonti, resi molto dicotomicamente, giocano a palla con i tuoi sentimenti? Quale evoluzione (o anche involuzione) in questa seconda sezione?
Ribadisco i concetti espressi nella prima risposta. Se ci si approccia alla poesia, nel tentativo di darsi chiarificazione a interrogativi speculari, come questo, non si arriva a niente. Si sporca la relazione a favore di intellettualismi sterili. Ci si avvicina alla poesia come al corpo di un’amata. O di una sconosciuta. Allo stesso modo per cui si scrive. Si crea. Non è una visione romantica o divinatoria, ma un tentativo di disconoscimento. Ci si deve disistruire da cosa ci è stato impartito, imposto per comprendere un altro linguaggio. È il linguaggio dell’intimo, quello che non ci diamo nemmeno più a noi stessi. Perché non è utile. Non è spendibile. Non c’è nessun rimando voluto, né una sofistica localizzazione o tecnicismi. Sono canti. E come tali ricreazioni di idee, pensieri, riflessioni, vite.
Il titolo della terza sezione, La grazia del sepolcro, viene in un certo senso preannunciato dall’ultimo verso della precedente (“I sepolcri sono già occupati”). Questa si apre con un verso a guisa di verdetto (Non scrivo più) riproposto in anafora e avvalorato da una presa di coscienza che ricorda una resa (“Non so scrivere altro da un nome troppo lungo”). Cosa ti ha fatto desistere da questo proposito? Qual è la grazia nel sepolcro dei tuoi versi?
I versi nascono e muoiono espressi. Dare eternità al concetto poetico è come volere affermare la ripetibilità del tempo. Inutile, anche questo. I versi non hanno determinazione fattiva. Servono nel modo in cui ci se ne serve. Aprono porte. Specchiano o distolgono. Creano empatia o dissenso. Mettono in comunicazione. La grazia del sepolcro è uno stato d’animo. Trovare, e prima cercare, fioriture dal male. La condizione del poeta è una condizione minoritaria. Inconsapevole. Non si sceglie di esserlo. Né lo si agita di posa, come fosse manta di distinzione. Il cervello del poeta, e dello scrittore in genere, di conseguenza alla pratica della scrittura e delle fasi d’elaborazione, di secrezione, di intromissione, si sviluppa neurologicamente in modo diverso. Come gli animali che si adattano ai luoghi, e modificano corpo e sensi (e mente) in relazione all’ambiente. La poesia descrive momenti. Non sono propositi. Né memoires. Ripeto, se si cerca soluzione nella poesia, non se ne caverà nulla. Come cercare soluzione nell’arte in genere. L’arte riproduce la realtà mutandone forma e linguaggio, quando non aderente o sovrapposta. L’arte delle parole è mistificatrice. Per riprodurre suono e incantamento. Ma non in maniera persuasiva, né seduttiva. La ricercatezza è la tecnica acquisita dall’attività, dalla frequenza. Acquisire il mestiere, se vogliamo usare questa terminologia profana. La poesia non si spiega.
Con “Baciami ancora/senza ricordo” apri la quarta e ultima sezione della raccolta (Fioriture tardive). É un invito ad amare il poeta nell’oblio della sua precedente attività o un rinnegare ciò che il poeta ha fatto a vantaggio di una più concreta godibilità della vita extra-poetica?
Niente di tutto questo. Una richiesta amorosa, invece. Pura. L’evitamento di memoria, ha un altro significato… Scrivo perché non mi è immediato comunicare. Scrivere mi mette in vicinanza all’altro. Questo sconosciuto… Di cui ho avuto paura. E di cui non ne riesco a fare a meno. Ho destinato le mie parole in croce alle donne di cui mi sono innamorato. L’unico modo per riuscire a dire. L’unico. Lo scrivere di poesia è un impeto. Un’onda che tarda ad arrivare. Certo, ripensata, poi, o emessa secondo l’oralità acquisita, come dicevo prima, dalla pratica. Raffinata, ecco. Ma è un impeto. L’ inconsueto a salvarti dall’automatico, dal disconoscere se stessi per aderire alla norma. La poesia spacca la testa quando s’imbriglia. È comunione. Si utilizzava come formula linguistica nei riti culturali, la frammentazione del logos per riprodurre oralità collettiva. Accompagnandosi agli strumenti, la lira, il giambo. Evidente la funzione comunitaria. A cui, in seguito, le accademie, i centri di poteri letterario, hanno attribuito vincoli formali. Per poterne determinare mercato, piuttosto. E diseguaglianze. Per definire classismo. La poesia è nata per codificazioni sociali, non elitarie o censorie.
Tranne in rari casi le tue poesie non hanno titolo. Perché questa scelta?
Perché il titolo finisce. Definisce. Queste, sono nate così. Il titolo forzava. Potrei rispondere a tutte queste domande ribadendo l’errore nell’ostinata ricerca di un perché.
Il ruolo della natura è senz’altro preminente, a volte infestante, nella raccolta. Che valore attribuisci alla grande madre Gea?
Il senso panico.
Un’ultima domanda. I versi che chiudono la raccolta (“Sia benedetto il giorno che vieni. /E che vai lasciandoti qui/ fiume / e io mare.”) potrebbero nascondere, concedendomi io la licenza di stravolgerne l’ordine e il senso, la tua volontà (o sogno, o desiderio, o paura) di immetterti da fiume nel mare magnum della poesia?
No. Si tratta d’amore.
Grazie, Emilio. Per aver respinto così puntualmente i miei assalti inquisitori e presuntuosi e dimostrato di saper difendere quella che secondo te è la natura transitoria dell’espressività del linguaggio poetico dall’accademismo pregno di sovrastutture. In attesa di leggere e ascoltare altri tuoi vagiti, ti faccio i miei migliori auguri.
Ad maiora.
A cura di Nazareno Loise