- Ma non trovi che quella frase fatta che ci sentiamo dire da sempre (tu di più, perché sei una scrittrice “vera”) sia una grande idiozia? Intendo roba del tipo “Un giorno questo dolore ti sarà utile”. Grazie al cazzo. Certo che mi sarà utile, ma intanto ho sofferto/sto soffrendo in modo atroce (vabbé, dirai, c’è chi davvero soffre tra angosce e atrocità, ok, ma capisci che tutto va commisurato, relativizzato, altrimenti non ne usciamo più).
- È la sublimazione. Dobbiamo sublimare. Io sublimo la mia rabbia nella scrittura.
- Quindi per te ha senso? Non trovi che invece sia una di quelle frasi che ci diciamo perché non sappiamo uscire da alcune situazioni e, insomma, una frase fatta ci salva sempre, anche dalla noia di dover ascoltare le lamentale degli altri o dover ammettere che abbiamo recato un danno psicologico, non dico fisico, all’Altro? Non è un modo di consolarci?
- Non è consolatorio. È un modo che abbiamo di trasformare la merda.
Le risposte sono di una mia amica, scrittrice professionista, nel senso che la sua narrativa non è buttata via come faccio io, con superficialità, d’impatto, con veleno e rabbia e grumi d’interiora.
La mia amica ha la giusta misura, lavora sulle parole, sulle frasi, sui concetti; è riflessiva, seria, sa come e dove ritornare sui suoi testi per migliorarli, per renderli suoi. Lei sa trasformare la merda che ti dona la vita in fertilizzante per una nuova creatività. Per questo la stimo, per questo trovo sia una delle scrittrici migliori nel panorama letterario italiano ecc.
Io no.
Mi spiego: grazie al cazzo (ribadisco), anche io, come tutti,- che si scriva, che si usi una qualche forma artistica oppure che si trovi un senso in un lavoro, – come tutti io tendo a sublimare la mia personale sofferenza (macigno sisifico per me, per altri una piuma fastidiosa che solletica le narici) con vari accorgimenti: la scrittura, il lavoro (quello “vero”, quello pagato mensilmente, quello che ti fa capire che non hai via d’uscita se vuoi continuare ad usufruire dei mezzi che la società ti propone e impone). Ma quale senso può avere questo modo di fare e di pensare? Insomma, mettiamo le carte in tavola: io non sono uno scrittore (e le mie metafore sono così banali da palesarlo nell’immediato); io scrivo per grafomania, per coprografia. Io scrivo perché, nel mio piccolissimo mondo antico mi rende potente, io che nel vasto mondo lì fuori, anche se sovrappeso, verrei spazzato via da un refolo di vento o dallo scaracchio di un anziano reazionario che mi guarda con palese scetticismo.
Ma se mi dite: “Guarda, è vero che stai soffrendo, che stai male, che vedi nero, ma devi trasformare tutto in scrittura, altrimenti soccombi, altrimenti l’hanno vinta gli Altri. Anche io trovo che la vita sia mefitica, ma qual è la soluzione?” (al che io rispondo, candido, “il suicidio”, ma, ehi!, manco nelle menti più illuminate il suicidio può essere ancora contemplato).
La soluzione è non soffrire. O soffrire da soli. O soffrire per qualcosa che non è mai capitato.
Una sofferenza pura, esistenziale. E grazie al cielo la mia angoscia esistenziale di tipo heidegeriana (forse anche sartriana) mi tiene per mano dalla lontana prima adolescenza (la mia prima psicoterapeuta presumeva che già nell’infanzia quell’ombra mi accompagnava timidamente, ma questa è un’altra storia) (un’altra storia della quale scriverò in altri lidi, poiché c’entra poco la letteratura, ma vi assicuro, Cari Lettori, che ne ho tante da dire sulle psicologie, psicoterapie, su chi per togliersi la seccatura ti consiglia di “curarti” anche se gli fai notare che non è come nei film, la psicoterapia, che non c’è solo la psicanalisi – quell’imbroglio novecentesco – ma tanti tipi di terapie e ogni volta che cambi un medico devi ripercorrere la tua vita coi soliti sbagli, debolezze, pianti e lacrime ecc.)
Mi sto perdendo (ma io sono uno scrittore dilettante, amatoriale direi, non sono un professionista), cerco di riprendere il discorso con una domanda: scrivere o soffrire? O ancora: si soffre per scrivere? Si soffre e poi si scrive? Si scrive per soffrire? Ci mettiamo in situazioni improponibili proprio per soffrire e poter scrivere? Esistono gli scrittori felici? (Ho visto anche degli scrittori felici, amico Lolli, e li disprezzo: perché se mi parli di sofferenza poi devi soffrire sempre, non solo fino a metà settimana e poi wow usciamo andiamo ai locali balliamo divertiamoci andiamo alle mostre al cinema etc.)
Quando soffri, scrivi. Così sublimerai la merda che senti dentro.
No, quando soffro, quando sto male e guardo il buio del cielo notturno nel quale vorrei perdermi per sempre, io non penso alla scrittura, io penso a quanto sia orribile star male, star male da soli (“ti stiamo vicini!”. Sì, lo so, ma il punto non è questo… vabbè).
Quando soffro, io voglio mettere fine alla sofferenza. In che modo, provo a deciderlo io.
Ma se la risposta che ti danno alla tua sofferenza è “Prova a scrivere, vedrai che starai meglio”, allora ti stanno prendendo per il culo.
Lo so, perché l’ho consigliato anche io in un impeto di romanticismo letterario.
Che ognuno di noi bruci per strada l’idea del romanticismo in tutte le sue forme. La sublimazione artistica arderà insieme allo scrittore-ispirato-con-penna-d’oca. Ne beneficeranno in molti, credetemi.
Oppure non credetemi, chi se ne importa.
Stare da soli, ritrovare la propria individualità, mi mette in pace per qualche minuto. Il tempo di rimettermi sul letto e aspettare che finisca anche questa giornata.
“Scrivi, così la tua sofferenza avrà un senso”.
Certo, come no.
Col cazzo.
Giovanni Canadè
Socialista libertario, scrittore velleitario, acerbo, amatoriale, dilettante, depresso e immotivato.