I venerdì del Nucleo Kubla Khan – Un eterno naufragio già scritto

“Navigammo su fragili vascelli

per affrontar del mondo la burrasca”

(Fabrizio De André, “Recitativo” – “Tutti morimmo a stento”)

L’estate è alle porte. Nei lidi i ragazzi perennemente abbronzati già dispiegano gli ombrelloni e sistemano le sedie a sdraio, impazienti di far qui sprofondare sederi autoctoni e natiche germaniche.  Tra non molto il “popolo in ferie” intaserà supestrade e bagnasicuga e con i piedi al fresco si accorgerà di quel mare che non va in vacanza e non prenota appartamenti, e che sta sempre lì, al suo posto, da millenni. Quel mare in cui l’uomo ricerca l’essenza della propria esistenza, che smania di solcare e che tanta paura gli fa.

La metafora della navigazione, in questa direzione, è la naturale risultante dell’incontro, ormai millenario, tra lo sfruttamento del mare come mezzo di sostentamento e di crescita socio-culturale, il pensare filosofico dell’uomo e la sua connaturata esigenza di narrare. L’uomo è un essere che vive sulla terraferma, ma ama rappresentare la pienezza del proprio essere nel mondo proprio attraverso le immagini della navigazione. La centralità del motivo topico ad essa legata si riflette inevitabilmente nella letteratura. Se il mare (ma più in generale, l’acqua) è l’elemento che gli autori prediligono per definire i limiti tra l’umano e il divino, il passaggio dal singolo al tutto e il confine tra la vita e la morte che l’uomo anela costantemente valicare, la navigazione risulta essere l’elemento che meglio asseconda l’inclinazione intrinseca all’uomo di protendere, inconsciamente, al di là di quei limiti. Rimanendo nel nostro ambito metaforico, il naufragio diviene una sorta di ragionevole conseguenza della navigazione, a cui si contrappongono, per l’appunto, l’approdare felice nel porto e la placida navigazione sulle onde a riposo.

La contrapposizione tra terraferma e mare sottintende in un certo qual modo la conseguenziale opposizione tra naufrago, implicato nella perigliosa navigazione, e spettatore, non coinvolto sulla terraferma.

Il rapporto antitetico s’inserisce con crudele esattezza nelle dinamiche socio-politiche dei nostri giorni. Vi varrà, forse, da consolazione o da amplificazione del disagio, sapere che una questione etica così attuale (quella relativa all’atteggiamento emotivo e anche pratico da assumere nei confronti di una cronaca che gorgoglia di relitti e di cadaveri) non sia altro che il riproporsi di una problematica tensione che assilla l’uomo da tempo immemore.

Terrorizzati dal rischio di rovinare, in questa sede, in tediose filippiche che di molto si distaccano dalla letteratura, ci concentreremo sull’aspetto più propriamente letterario del “naufragio”,

Tra le più antiche, e senz’altro tra le più illuminanti, “immagini di un naufragio”, si ricorda quella inserita nel De rerum natura, il poema didascalico scritto da Tito Lucrezio Caro, in cui il filosofo e poeta latino si fa portavoce delle teorie epicuree e che, nell’incipit del secondo dei sei libri che lo compongono, offre questa poderosa immagine:

È dolce, quando i venti sconvolgono le distese del vasto mare

guardare da terra il grande travaglio di altri:

non perché l’altrui tormento procuri giocondo diletto,

bensì perché t’allieta vedere da quali affanni sei immune.”

(Traduzione di Luca Canali, Biblioteca Universale Rizzoli, 1990)

Partendo proprio da questi versi, il filosofo tedesco Hans Blumenberg pone nel suo saggio Naufragio con spettatore un interrogativo di secolare importanza: “Noi, oggi, di fronte all’implosione postmoderna dei natura e storia, con chi ci identifichiamo? Con lo spettatore? Con il naufrago? Con entrambi?”

“Poggiando sulla terraferma, uno spettatore contempla il travaglio di un naufragio. Egli non partecipa agli eventi, gode soltanto della visione che ha dinanzi. La sua non è un iocunda voluptas, sorta immediatamente dalla visione delle tribolazioni altrui, verso cui guarda anzi con commosso distacco. La serena gioia che lo pervade scaturisce dal confronto fra la sicurezza della sua posizione e il pericolo e la rovina degli altri. L’immagine lucreziana non è che un’allegoria del saggio epicureo. Il suo solido terreno è la filosofia di Epicuro […] che insegna a vivere senza paure e superstizioni in un universo indifferente alla sorte degli uomini. Il mare in tempesta è invece l’intera natura, frutto di un incessante lotta tra gli elementi, dove il nuovo si genera dal vecchio, servendosi della sua materia e delle sue forme come di rottami di grandi naufragi. […]  L’universo lucreziano è lacerato dalle vicissitudini di un ordine labile che sorge dal caso, che si genera e si disintegra continuamente, senza scopo, nello spazio e nel tempo infiniti. Il saggio è colui che sa di sottrarsi a tale gioco alterno di creazione e distruzione e che mantiene ed ostenta la propria costanza, imperturbabilità e serenità. La sua grandezza, il suo dominio sulle tempeste ed i naufragi del mondo, non consiste tanto nella superiorità dell’intelletto, quanto nella forza dell’animo che dipende dall’esercizio della teoria, ossia dall’abitudine di contemplare lo spettacolo quotidiano di vita e di morte che la natura mette in scena”.

(Hans Blumenberg, “Naufragio con spettatore”, traduzione di Francesca Rigotti, Il Mulino, 1985)

Non c’è appagamento nel vedere gli altri soffrire: l’immagine lucreziana rivela unicamente la distanza tra chi sceglie di affidarsi a un sapere che rende sicuri, quello epicureo, e chi invece resta schiavo delle difficoltà e delle contraddizioni dell’esistenza, rischiando di naufragare. La prospettiva finale cui vuole tendere il poema di Lucrezio è il raggiungimento dell’atarassia (imperturbabilità) e la certezza della conoscenza che non rende schiavi di falsi saperi e becere passioni. Secondo la teoria epicurea, infatti, l’animo umano può essere turbato dalle passioni, dalla ricerca del piacere volgare che spesso produce come conseguenza il dolore, dal dolore stesso e dall’amore. L’epicureo deve fare ogni sforzo per liberarsi dal dominio di queste passioni, conoscendole e combattendole al loro insorgere, per raggiungere uno stato di imperturbabilità. È questo per il sapiente il raggiungimento dell’hedonè (il piacere inteso come assenza di turbamento). L’atarassia, naturalmente, non è raggiunta una volta per sempre, ma è il risultato di una ricerca continua da parte del saggio, il quale sa di poter contare sulle forze della sua ragione e sugli insegnamenti della filosofia per non soccombere a se stesso. Sarà dolce allora osservare dall’alto, dai templa serena della saggezza, gli uomini che si affannano costantemente, muovendosi come formiche nel mondo, alla ricerca della propria via.

Ancor prima di Lucrezio, già nella letteratura di età Ellenistica, il naufragio si configura come una costante poetica suggestiva capace di suscitare profonde riflessioni sulle passioni, le credenze e gli stati d’animo dell’uomo.

Emblematico in tal senso è il caso di un epigramma di Callimaco, inserito nell’Antologia Palatina, in cui l’autore affronta il tòpos della tomba del naufrago in maniera del tutto singolare. Lo spettatore del sepolcro di un marinaio non è pervaso dalla gioia scaturita dal confronto fra la sicurezza della sua posizione e la rovina altrui, ma viene assalito dall’angoscia e dal timore di una medesima sorte.

“Chi sei naufrago sconosciuto?

Leontico ti ha trovato qui sulla spiaggia,

morto, e ti ha chiuso in questa tomba,

piangendo la sua vita rischiosa:

neppure lui è tranquillo,

ma vaga per il mare come un gabbiano”.

(Traduzione di Giuseppe Zanetto)

Il personaggio epico-letterario, che più di tutti incarna il desiderio dell’uomo di slanciarsi oltre le barriere imposte, è Ulisse, eroe dal multiforme ingegno e protagonista dell’epica omerica, naufrago per eccellenza, le cui continue peripezie compongono l’Odissea. Particolare importanza al suo aspetto “titanico”, tuttavia, viene dato proprio da Dante nel XXVI canto dell’Inferno. Qui Ulisse viene spinto al “folle volo” oltre le Colonne d’Ercole e a naufragare, poco prima di raggiungere la montagna del Purgatorio, dalla sua smania irrefrenabile di conoscenza. Nell’ottica dantesca lo scellerato viaggio rappresenta la volontà insita nell’uomo di superare i limiti della conoscenza umana, di cui le Colonne sono il simbolo. Ulisse, portando all’eccesso le sue virtù e ignorando il sostegno della Grazia Divina, si eleva superbamente alla condizione di Dio tentando di superare i limiti della finitezza dell’essere umano. La brama impetuosa di seguire “virtute e canoscenza” lo conduce al naufragio e, quindi, alla morte (“infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso”).

Nel periodo romantico il naufragio risulta essere una delle tematiche più care agli artisti, a riprova dell’atemporale universalità del motivo letterario. Più che mai afferente alla tendenza propria del Romanticismo di focalizzare l’attenzione sui rapporti tra l’uomo e le forze naturali, il naufragio diviene metafora della disfatta umana per mano della Natura. La nave raffigura il piccolo cosmo umano in balia dell’onnipotenza dell’universo in un’atmosfera ambivalente di terrore e attrazione.

Le stesse suggestive immagini di turbata sublimazione della potenza del mare che rintracciamo ne “La ballata del vecchio marinaio” di Samuel Taylor Coleridge (“Sott’acqua rimbombò, più forte e più sinistro: avviluppò la nave, crepò la baia, come piombo la nave sprofondò”) e nei versi di Heinrich Heine inseriti ne “Il Mare del Nord” (“E’ senza stelle e rigida la notte; e il mare fermenta; e sul mare giace, a ventre sdraiato, il vento deforme del Nord”), le ritroviamo nell’arte pittorica contemporanea, come testimoniano “Il mare di ghiaccio” di Caspar David Friedrich e “Il naufragio della Minotauro” di William Turner. Discorso a parte merita la “Zattera della Medusa” di Theodore Gericault in cui i naufraghi raffigurati, in preda alla disperazione, sono costretti a cibarsi delle loro stesse carni.

Proprio il tema del cannibalismo indotto dal naufragio ritorna ne “Le avventure di Gordon Pym” in cui l’autore Edgar Allan Poe descrive, attraverso una minuziosa introspezione psicologica, l’equipaggio tormentato di un brigantino in balia di una burrasca le cui illusioni di salvezza ne sanciscono la fine.

“Il solo modo che avessimo a disposizione per quella terribile lotteria, in cui giocavamo tutti il nostro turno mortale, era quello delle paglie. Piccoli bastoncini di legno più o meno lunghi potevano svolgerne la funzione e fu stabilito che sarei stato io a reggerli in mano. Fra tutte le tragedie in cui un uomo può incappare, rare sono quelle in cui non faccia ricorso all’istinto di sopravvivenza, un istinto che cresce tanto più è fragile il filo che lo lega alla vita. Ma la faccenda che mi era toccata, così diversa dal 116 tumulto e i pericoli della tempesta o dalla tortura crescente della fame, quella faccenda – ripeto – m’indusse a pensare alle poche probabilità che mi si risparmiasse la più terribile delle morti, terribile per lo scopo stesso cui doveva servire; e ogni particella della forza che mi aveva sostenuto per così lungo tempo si involava rapidamente come piuma in balìa del vento, lasciandomi il miserabile trastullo del più abbietto e miserabile terrore. All’inizio non avevo la forza per spezzare e raccogliere insieme i pezzetti di legno, perché le mie dita rifiutavano quel compito e le ginocchia tremavano convulsamente. Passai velocemente in rassegna i modi più assurdi per evitare di essere complice di quell’odiosa speculazione. Pensai di gettarmi ai piedi dei miei compagni e scongiurarli di risparmiarmi questo triste compito, di scagliarmi su di loro all’improvviso e ucciderne uno perché fosse inutile tirare a sorte; in una parola, pensai a tutto fuorché a compiere ciò che dovevo fare. Finalmente, dopo aver perso non poco tempo in quelle folli considerazioni, fui richiamato a me stesso dalla voce di Peters che mi invitava a toglierli al più presto dalla terribile ansia; ma anche allora non potevo risolvermi a estrarre i pezzetti di legno e indugiai immaginando ogni astuzia per far estrarre quello più corto a uno dei miei compagni di miseria, perché era convenuto che quello cui fosse toccato sarebbe morto per salvare gli altri. Prima però di condannarmi per questa malvagia idea, il lettore provi a mettersi al mio posto. Alla fine, non potendo più differire la cosa e col cuore che mi batteva in petto fino a scoppiare, avanzai verso il castello di prua dove mi aspettavano i miei compagni, tesi una mano e Peters estrasse subito il suo. Il bastoncino non era il più corto, era salvo, e dunque una spe117 ranza in meno per me, una probabilità di salvarmi che svaniva. Cercando di raccogliere il coraggio, porsi i bastoncini ad Augustus, che estrasse immediatamente il suo. Anch’egli era salvo! E poiché ora le probabilità di vita o di morte si bilanciavano perfettamente, sentii crescere in me la ferocia della tigre, l’odio peggiore, più demoniaco contro il mio povero compagno Parker. Ma questo sentimento non durò a lungo e, con un tremito convulso e gli occhi chiusi, gli tesi i due bastoncini rimanenti. Trascorsero forse cinque minuti prima che si risolvesse a scegliere e in quei momenti di angoscia che sembrava spezzarmi il cuore, non aprii mai gli occhi. Finalmente estrasse uno dei bastoncini, ma ignoravo ancora quale fosse; nessuno parlava e io restavo immobile, smarrito, senza osare di scoprire il mio destino alzando gli occhi sul legnetto rimasto. Quando Peters mi toccò la mano, alzai lo sguardo su Parker e mi accorsi subito dalla sua espressione che ero salvo e che egli era il condannato. Rimasi senza fiato e caddi svenuto sul ponte. Ripresi conoscenza in tempo per assistere all’epilogo del dramma, cioè alla morte di colui che ne era stato il protagonista, poiché aveva suggerito l’idea. Non oppose la minima resistenza e, colpito alla schiena da Peters, cadde subito morto. Non descriverò qui l’orrendo banchetto che seguì, né ciò che avvenne nei giorni seguenti perché simili cose si possono soltanto immaginare e le parole non avrebbero mai la forza sufficiente a imprimere nella mente l’orrore della realtà. Dirò soltanto che, avendo calmato la spaventosa sete bevendo il suo sangue e, sbarazzatisi di comune accordo di mani, gambe e testa gettandoli in acqua, facemmo a pezzi e divorammo il resto nei quattro giorni che seguirono”.

(Edgar Allan Poe, “Le avventure di Gordon Pym”, Montecristo, 2016)

Come gli abissi marini anche le profondità dell’animo umano sono insondabili. Nel rapporto fra uomo e mare domina la tendenza al rischio, all’abbandono e all’incertezza. Esaustive in tal senso sono le parole con cui Herman Melville sostiene che la letteratura è conoscenza di mare, cioè di vita irrazionale e misteriosa, mentre la filosofia è conoscenza di terra, reclamando il potere della prima sulla seconda.

Le tematiche sviluppate da Melville in Moby Dick sono le stesse che riprenderà Giovanni Verga ne I Malavoglia. Con il naufragio della Provvidenza, in cui la famiglia protagonista del romanzo aveva investito tutti i suoi risparmi, affonda ogni speranza di ripresa economica e prende avvio il processo di disgregazione del nucleo familiare che occupa l’intera narrazione. Nel romanzo dell’autore catanese il mare è il luogo di un tempo emblematico e realistico, in cui avvengono eventi cruciali. La tempesta, fenomeno naturale che porta la morte e la distruzione, costringe gli uomini a stabilire nuove relazioni con se stessi e con il prossimo. La Provvidenza, la nave dei Malavoglia, diviene il simbolo di una società in pericolo che lotta per la sua sopravvivenza. Come gli eroi di Melville anche quelli verghiani vengono inghiottiti dal mare dell’eterno e dell’oscurità, in cui non avvengono cambiamenti. La differenza fra i due capolavori si rintraccia nel significato che assumono personaggi: mentre in Melville Ismaele e il Capitano Achab esaltano la figura dell’eroe romantico in perenne lotta contro il male, il Bastianazzo di Verga affronta l’ignoto del mare sotto il giogo della sua mentalità gretta che gli impedisce di compiere scelte autonome e di distaccarsi dalle credenze tradizionali.

Proseguendo nel solco tracciato precedentemente dai connazionali Poe e Melville, anche Thomas Stearns Eliot si occupò del tema del naufragio, inserendolo nella quarta sezione de La terra desolata intitolata “Morte per acqua”. Il protagonista del componimento è Phlebas, un marinaio morto che nei tratti ricorda il Vecchio Marinaio di Coleridge, vittima di una pesca finita in tragedia. Il marinaio fenicio, che sotto alcuni punti di vista richiama Ulisse, con l’eroe greco ha in comune l’indomabile curiosità e la tenace ostinazione che lo spingono a non arrendersi al tempo e alla vecchiaia. La morte in acqua purifica la vita del marinaio trascorsa secondo la logica “del profitto e della perdita”. Il canto di Eliot assume i tratti di un ammonimento al lettore a non cadere nella tentazione di vani profitti ed evitare cosi quei gorghi che spolpano “l’ossa in mormorii”. Phlebas incarna la civiltà moderna fatta di commerci e dedita al guadagno, mentre l’acqua diviene l’elemento di purificazione che concede all’uomo l’opportunità di liberarsi della vita rinascendo nella morte.

 

 

“Phlebas il fenicio, morto da quindici giorni,
Dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare,
E il profitto e la perdita.

            Una corrente sottomarina

Gli spolpò l’ossa in mormorii. Come affiorava e affondava
Passò attraverso gli stadi della maturità e della giovinezza

Procedendo nel vortice.

             Gentile o giudeo,
O tu che volgi la ruota e guardi sopravvento,
Considera Phlebas, che un tempo fu bello e alto

come te”.

(Traduzione di Roberto Sanesi)

Seppure in maniera meramente metaforica, i temi della navigazione e del naufragio ritornano nelle parole di George Gray, protagonista di una delle poesie di Edgar Lee Masters raccolte nell’Antologia di Spoon River. Leggendo la propria lapide Goerge realizza che è impossibile fuggire dalle angosce della vita: l’isolamento e il distacco dagli altri uomini porta all’allontanamento dalla vita stessa. In vita rifiutò l’amore e i suoi inganni, temette il dolore e si nascose dall’ambizione e dal successo (a differenza del marinaio Phlebas), ma mai in lui si placò frenesia di trovare un senso alla propria vita. Per George essa è come una nave le cui vele devono restare alzate ed essere sospinte dai venti del destino, ovunque essi conducano. La ricerca di un senso da dare alla vita può risultare fatale. Eppure condurre un’esistenza senza scopo è una “tortura” fatta di inquietudini e incerte aspirazioni, proprio come una barca che desidera navigare ma teme fin troppo la potenza del mare. La vera destinazione, allora, non è il porto in cui riposare le vele dagli affanni della vita, ma la vita stessa.

“Molte volte ho studiato
la lapide che mi hanno scolpito:
una barca con vele ammainate, in un porto.
In realtà non è questa la mia destinazione
ma la mia vita.
Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;
il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura;
l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.
Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.
E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio —
è una barca che anela al mare eppure lo teme”.

(Traduzione di Fernanda Pivano)

Il macrotema “navigazione-naufragio” continua, ancora oggi, ad esercitare le sue malìe sulla letteratura e sull’arte in generale. Retaggio del nostro periodo amniotico, potenza poseidonica di un “mare che si muove anche di notte e non sta fermo mai”, volontà titanica di spingersi oltre le proprie paure fine ai confini dell’ignoto… i motivi della fascinazione esercitata dal mare sull’uomo non potrebbero essere racchiusi in una rubricaccia settimanale come questa.

Mai come oggi si rimanda tutto il resto alla frequentazione di questi e di altri libri. Anzi, alla loro navigazione.

E che il naufragar vi sia dolce in questo mar!

“Gli uomini, d’altronde, sono per natura predisposti a solcare le acque. Cos’è la vita, se non un’insidiosa traversata in mare? Il reticolato dell’esistenza si compone di una miriade di meridiani e paralleli, ma non conta quali rotte si seguano, il porto da raggiungere è uno solo per tutti.

Ogni uomo appartiene al mare.

C’è chi cala a picco prima ancora di imparare a navigare e chi sceglie di affondare anzitempo. C’è chi sembra volare sul mare e non sprofondare mai e c’è chi invece procede lentamente e subito s’inabissa. C’è chi vede affondare le barche più vicine e per questo continua a trascinarsi sull’acqua nell’attesa che affondi la propria. C’è chi soffre per l’intero viaggio e chi ride terminandolo. C’è chi vive ignorando il mare e chi muore per averlo sfidato. Ci sono quelli per cui il vento non soffia mai, eppure lo meriterebbero più di chiunque altro, e ci sono quelli che procedono sfruttando le correnti degli altri. C’è chi vorrebbe che il viaggio non finisse mai e chi invece che non fosse mai cominciato. C’è chi riesce a veleggiare sospinto dall’illusione di aver capito il senso del viaggio e chi si arrende per lo stesso motivo. C’è chi forse lo ha capito davvero ma nessuno gli ha creduto, e chi sa di non averlo capito ma è stato creduto da troppi. Quel che è certo è che non ci sarà un viaggio di ritorno”.

 

(Nazareno Loise, “Nera semenza”, Edizioni Efesto, 2017)

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