I venerdì del Nucleo Kubla Khan – Leonard Michaels

Nuovo appuntamento con #ivenerdìdelnucleo, in collaborazione con l’Associazione Culturale Nucleo Kubla Khan
Rubrica a cura di Nazareno Loise.

Leonard Michaels (1933-2003) è stato un romanziere, saggista e scrittore di racconti statunitense, tra i più stimati della sua generazione. Ammiratore di Franz Kafka e Isaac Babel, spesso associato durante la sua vita agli scrittori ebrei americani della generazione precedente, Saul Bellow, Bernard Malamud e Philip Roth, fu anche uno stimato insegnante di scrittura creativa. Le sue opere si caratterizzano per la cura palpitante che egli riserva al ritmo delle frasi, così esacerbata da farne uno scrittore unico e ancora oggi seguito.

“Le storie di Leonard Michaels”, ha scritto il romanziere e scrittore di racconti Charles Baxter, “sono brillanti. Rabbia, intelligenza e irrequietezza ossessiva animano queste storie a tal punto che i loro materiali esplosivi sembrano pronti ad accendersi in qualsiasi momento”. I personaggi di Michaels, quasi sempre impotenti e asserviti ai loro impulsi, vivono le loro vite nella costante prossimità all’annientamento.

Il romanzo di cui parleremo oggi, Sylvia (Adelphi, 2016), “ispirato alla storia vera del suicidio della prima moglie di Leonard Michaels, Sylvia è uno di quei romanzi che, terrifici nella loro profonda verità, si insinuano quasi inavvertitamente nella mente del lettore – e vi rimangono per sempre” (ibid. dalla quarta di copertina).

***

“Non ricordo se ci vedemmo a casa sua o in un ristorante, ma più tardi, nel corso della serata, eravamo al ristorante e fui stupito di scoprire che era presente un altro uomo. Un amico di Sylvia. Era biondo e francese, e faceva un corso post-laurea a Yale. Aveva un viso morbido, bello e sensuale, e un sorriso ironico, pesantemente allusivo. Lasciava intendere che le complessità della vita, quelle che lasciano gli altri sconcertati e feriti, lo divertissero. Pensai: Questo tizio è uno stronzo, ma se sta bene a Sylvia, sta bene anche a me. A ogni modo l’amico di Sylvia era chiaramente un amante, troppo bello per essere amico di chiunque. Con lui nel quadro, forse parlare di divorzio non sarebbe stato un problema. Forse Sylvia stessa avrebbe sollevato l’argomento. A un certo punto della serata, Sylvia augurò la buonanotte al francese. Non ricordo se lui e io ci salutammo e neanche se fossimo stati presentati. Semplicemente, non era più al tavolo con noi. Rimasi di nuovo stupito, perché mi ero aspettato che Sylvia congedasse me, non lui. Andato via il francese, Sylvia e io tornammo a piedi a casa sua.

I festeggiamenti per il Capodanno erano cominciati presto. C’erano spazzatura e vetri rotti dappertutto. Le strade erano chiazzate di vomito, come cosparse di orribili, sgargianti bouquet. Sembrava lo scenario di un incubo, ma Sylvia e io tornavamo a casa a piedi come avevamo fatto tante volte in passato, quasi che nulla di fondamentale fosse cambiato fra noi. Sicuramente aveva una storia con il francese, ma non ci pensavo. La naturalezza del nostro essere insieme in quel momento mi fece riflettere: È questo l’amore? E, se ci si innamora di qualcuno, il sentimento per quella persona può mai finire? Sylvia si strinse al mio fianco tenendomi il braccio. Mi sentii sposato a lei per sempre, e immaginai che si aspettasse di passare la notte con me e di fare l’amore. Ogni volta che tornavo in città, trascorrevo qualche notte con lei. Ma non volevo passare la notte insieme. Non volevo fare l’amore. Dovevo parlare del divorzio. L’argomento sembrava incongruo. L’atmosfera era tutta sbagliata. Non provavo rabbia né rancore, solo una vaga ansia riguardo al futuro. Non c’era in me alcun sentimento che mi aiutasse a tradurre l’argomento in parole.

Dissi a Sylvia che due settimane dopo avrei fatto gli esami preliminari. Lei mi parlò del suo lavoro di impiegata statale. A casa Sylvia si cambiò e mise una camicia da notte corta di cotone grigio. Poi si versò un bicchiere di bourbon e mi raggiunse sul divano del soggiorno, dove si stese sulla schiena poggiando la testa nel mio grembo. Non era il momento di parlare di divorzio, ma parlarle di qualunque altra cosa sarebbe stata una menzogna. Ero tranquillo e l’ascoltavo, aspettando l’occasione per affrontare la questione cruciale, l’unica cosa reale, e metter fine a quella irreale intimità domestica, rassicurante e meccanica. Anche se, in un certo senso, l’amavo e l’avrei sempre amata, la nostra vita insieme era un inferno e non avrebbe mai potuto essere diversa. Mi promisi di non dimenticarlo.

[…]

Sylvia mi raccontò degli uomini che aveva frequentato nei mesi precedenti. Alcuni erano miei amici. Mi lasciò capire che era stato a letto con loro raccontandomi piccole storie pettegole.

[…]

Aveva un tono divertito e blasé, come se niente di tutto ciò potesse risultarmi doloroso. Andò avanti per parecchio tempo, passando in rassegna senza alcun imbarazzo le proprie storie, distesa con la testa nel mio grembo. Io ascoltavo senza dire una parola.

[…]

Circa un’ora trascorse così, con me rinchiuso nella mia vecchia prigione psicologia, a chiedermi se sarei mai stato di nuovo bene con me stesso. Sylva mi aveva appena dato ragioni in abbondanza per parlare di divorzio, per dire con molta semplicità che volevo il divorzio, ma lei non stava zitta un attimo, sorseggiando il bourbon e confessando allegramente le proprie infedeltà. Avrei potuto dirle che anch’io avevo una storia, ma si trattava di un’unica persona e mi sembrava che non c’entrasse nulla; non avevo nulla di molto teatrale o interessante da dire sul suo conto. Non fumava neanche, e tanto meno faceva uso di droghe. Quel momento apparteneva a Sylvia. Non potevo dire niente di niente. Poi Sylvia mi chiese: «Ti va di riprovarci ancora una volta?». Cioè, riprendere la nostra vita nel Michigan, mentre io completavo il dottorato. La domanda era stupefacente. Non mi ero aspettato nulla del genere, ma forse avrei dovuto intuire che era nell’aria.

In quel momento non cercai di prendere decisioni. Avrei potuto ripetere tutto ciò che aveva detto parola per parola, ma capivo poco, forse niente. Sembrava un’altra persona, non più la Sylvia timida, dalla sensibilità patologica e dagli improvvisi scoppi di ira, che gli uomini trovavano attraente e che tuttavia si sentiva ripugnante. Questa era una Sylvia fascinosa, una puttana per intellettuali, che sorseggiava bourbon e si vantava delle proprie avventure amorose per poi chiedermi se volevo tornare con lei, come se avesse dimostrato di saper essere splendidamente depravata, dotata di humour brillante e distruttivo, perversa e irresistibile. Sedevo lì, gonfio di infelicità, pesante, stupido, dolorante. Sylvia aveva detto abbastanza. Ora aspettava la mia risposta.

«Aspetta che finisca gli esami» dissi. «Poi mi raggiungi ad Ann Arbor»

Mi udì. L’avevo detto con voce chiara. Non mi ero mai sentito peggio. Sylvia restò immobile per un po’, soppesando le mie parole. Poi si alzò e andò in camera da letto. Rimasi seduto sul divano, incapace di parlare, un idiota. Riapparve, e in piedi accanto al divano disse: «Ho appena ingoiato quarantasette Seconal». Nei suoi occhi vidi uno sguardo piatto che diceva: È fatta, beccati questa.

Dissi: «Stai scherzando».

Andò in bagno.

(Traduzione di Vincenzo Vergiani)

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