I venerdì del Nucleo Kubla Khan – Ungaretti e l’allegria degli esami di Stato

“Si fa poesia di certo non pensandoci, perché occorre farla”

(Giuseppe Ungaretti)

Se nell’articolo della scorsa settimana  abbiamo, in un certo senso, “anticipato” il Ministero dell’Istruzione profetizzandone (o forse incalzandone, chissà!) la scelta di proporre Leonardo Sciascia all’interno della prima prova degli esami di maturità, oggi interveniamo a posteriori sul lavoro svolto dalla commissione ministeriale con una breve incursione “carsica” in un’altra delle tracce proposte ai maturandi.

Accanto al buon Sciascia e al suo capitano Bellodi il foglio venuto direttamente da Roma proponeva la poesia Risvegli, di Giuseppe Ungaretti.

Risvegli

Mariano il 29 giugno 1916

 

Ogni mio momento
io l’ho vissuto
un’altra volta
in un’epoca fonda
fuori di me

Sono lontano colla mia memoria
dietro a quelle vite perse

Mi desto in un bagno
di care cose consuete
sorpreso
e raddolcito

Rincorro le nuvole
che si sciolgono dolcemente
cogli occhi attenti
e mi rammento
di qualche amico
morto

Ma Dio cos’è?

E la creatura
atterrita
sbarra gli occhi
e accoglie
gocciole di stelle
e la pianura muta

E si sente
riavere

La poesia forma, assieme ad altre trentadue liriche, la prima vera raccolta compiuta di versi, data alle stampe in edizione semi-clandestina (in ottanta esemplari) nel 1916, durante la guerra di trincea, con il titolo Il porto Sepolto. Le poesie, tutte interamente composte al fronte, si susseguono quasi come “fogli di diario”, corredate di precise indicazioni cronologiche e di luogo. Il titolo della raccolta arriva al poeta, tra lamenti di commilitoni e colpi di mortaio, direttamente dalla sua adolescenza egiziana. Il rimando è a quel leggendario porto di Alessandria d’Egitto mai trovato, ancora sepolto e anteriore all’epoca alessandrina. Metaforicamente, Ungaretti vuole alludere al suo viaggio verso gli aspetti archetipici e più profondi del suo essere. Disse così il poeta su Alessandria d’Egitto, sua città natale, e sul titolo dell’opera: “Quella mia città si consuma e s’annienta d’attimo in attimo. Come faremo a sapere delle sue origini se non persiste più nulla nemmeno di quanto è successo un attimo fa? Non se ne sa nulla, non ne rimane altro segno che quel porto custodito in fondo al mare, unico documento tramandatoci d’ogni d’era d’Alessandria. Il titolo del mio primo libro deriva da quel porto: Il porto Sepolto”.

La plaquette confluirà assieme ad Allegria di naufragi, e ad altri componimenti, nella raccolta L’Allegria, pubblicata nel 1931 e poi di nuovo, definitivamente, nel 1942.

Molti dei componimenti subirono modifiche o varianti nel corso del processo compositivo che va dalla prima edizione de Il porto Sepolto alla raccolta definitiva del 1942. Questo processo di rimaneggiamento instancabile e quasi ossessivo dei testi risponde a quella volontà tipica della poesia ungarettiana di ripulire i testi dai vezzi più crepuscolari e futuristi, e renderli coerenti tra loro mantenendo fede alla parola poetica nella sua precisione lirica più assoluta.

In questa sede faremo riferimento a L’Allegria nella sua definitiva interezza.

La raccolta si configura, nelle intenzioni di Ungaretti, come un’autobiografia per immagini di “un uomo di pena” coinvolto nella realtà lacerante della prima guerra mondiale. Tutti i componimenti ruotano attorno alla dicotomia simbolica guerra-pace, in cui il primo elemento è il tema cardine, l’ossessione esistenziale, a cui si contrappone l’aspirazione, a volte implicita e sussurrata, alla pace. Il secondo nucleo semantico ruota attorno al rapporto vita-morte, in cui la morte rappresenta il limes estremo dell’uomo e insieme l’hantise esistenziale per eccellenza, la cui indagine è resa più urgente e drammatica dalle vicende della trincea. Il dolore della storia e il permeante senso di precarietà esistenziale scaturiti dal contrasto guerra-pace vengono mitigati dal miraggio dell’amore universale che proietta l’io in una dimensione religiosa e cosmica.  Da un punto di vista umano, questa chimera dislaga nella speranza di una fratellanza universale (“Di che reggimento siete/ fratelli?// Parola tremante/ nella notte”, Fratelli). In questa direzione, nonostante la consapevolezza dell’orrido che la guerra rilascia in Ungaretti, si leggono le aperture alla fiducia e alla speranza del futuro, intese come la capacità di riprendere il proprio cammino esistenziale dopo il naufragio.

 

Allegria di naufragi

Versa il 14 febbraio 1917

E subito riprende
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare

L’atmosfera in cui sono immersi i componimenti è quella devastata della trincea, in cui il tema della distruzione bellica, resa tremendamente dalle immagini di frantumazione e di smembramento corporeo (carcassa, budella, brandello), è collegato da un putrescente filo all’aridità e alla desertificazione del paesaggio. “In queste budella/ di macerie” (Pellegrinaggio) la vita del poeta è occultata in una sorta di deserto, distrutto e corroso, che forma simbolicamente una seconda trincea, sovrapposta a quella del Carso. I motivi ricorrenti di una vegetazione resa gerbida dall’uomo e dal tempo, della mancanza d’acqua e del digradarsi della luce simboleggiano la morte e l’aduggiarsi della vitalità. La desertificazione e l’inaridimento del paesaggio coinvolgono l’animo del poeta e divengono metafora della condizione umana. Il poeta arriva a sentirsi come “una cosa” (“Lasciatemi così/ come / una cosa”, Natale), assorbita dal paesaggio, fino a scoprirsi fatalmente “una docile fibra / dell’universo” (I fiumi).

San Martino del Carso

Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916

Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto

Ma nel cuore
nessuna croce manca

È il mio cuore
il paese più straziato

Attraverso questo processo di reificazione, l’esistenza è ridotta alla sua asciuttezza più truce e si rivela, in un terribile gioco di alternanza con la morte, come condizione biologica estrema (“La morte / si sconta / vivendo”, Sono una creatura).

La parola ungarettiana ha una precipua sostanza fisica e sonora. Chiariva così, Ungaretti, le origini della sua idea poetica in un articolo intitolato Per Mallarmé (1929): “Mi sembrava […] che la parola avesse qualche relazione con l’udito; mi sembrava che il ritmo fisico, danza, passo, corsa, battiti del cuore, chiaroscuro delle sensazioni, e il ritmo dell’anima, passioni fugaci, senso della gioventù (eternità fuggitiva), senso dell’eterno (ferma verità), cercassero, per i poeti, nelle parole, cioè in oggetti sonori, il loro ordine”. Le parole sono, quindi, veri e propri “oggetti sonori” da mettere in relazione attraverso l’omofonia (ricorrere degli stessi suoni), caratteristica linguistica che permette al poeta di procedere per analogia e di produrre accostamenti arditi e metafore iperboliche.

Questo contatto tra suono e metafora è inserito in una particolare dimensione tipografica. Importante tanto quanto il suono e il senso delle parole è lo spazio bianco che, utilizzato per separare strofe e aggiungere pause, si colloca nel testo e diviene egli stesso testo. La semantizzazione del vuoto trasforma gli spazi bianchi in elemento strutturale fondamentale in latu sensu.

Fratelli

Mariano il 15 luglio 1916

Di che reggimento siete
fratelli?

Parola tremante
nella notte

Foglia appena nata

Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità

Fratelli

Alla rielaborazione fonetica e semantica della parola e del vuoto, si accompagna la programmatica decostruzione della metrica e della sintassi tradizionali. Il verso dell’Allegria è frammentato e la sua lunghezza media si attesta intorno alle cinque sillabe (anche se non mancano casi in cui i versi constano di tre o due sillabe, fino a casi estremi in cui il monosillabo occupa l’intero verso). È questo il famigerato “sillabato ungarettiano” in cui, in un processo di passaggio dalla parola-verso alla sillaba-verso, la parola si distacca isolata. Ungaretti spezzetta il metro italiano tradizionale, in particolare l’endecasillabo, creando dei versicoli dallo stile inedito e audace. In Casa mia, ad esempio, viene scomposto un endecasillabo a favore della costruzione di una terzina compiuta (“Sorpresa / dopo tanto / d’un amore”). L’assonanza e l’anafora vengono predilette a discapito della tradizionale rima: un esempio su tutti è quello contenuto in Sono una creatura, in cui la parola “così” viene ripetuta più volte perseguendo un chiaro intento semantico.

Sono una creatura

 Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916

Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
cosí dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata

Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede

La morte
si sconta
vivendo

Estremamente innovativo è il lavorio che Ungaretti conduce sulle scelte linguistiche e retoriche. Il poeta elimina le aggettivazioni superflue a favore di una lirica asciutta e limpida (come le pietre del Carso e i fiumi che lo percorrono nelle viscere), depurata dalle delimitazioni spaziali e temporali troppo precise, per creare una tempo e uno spazio vaghi e universali. Sostituisce, inoltre, la similitudine con l’analogia alfine di ottenere un rapporto d’identificazione immediato e non frutto del logico paragone.

Veglia

 Cima Quattro il 23 dicembre 1915

Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

 

La vaghezza che percorre le liriche ungarettiante è ben spiegata da Carlo Ossola  nel saggio Giuseppe Ungaretti, pubblicato da Mursia nel 1975, in cui lo studioso analizza i particolari procedimenti espressivi con cui Ungaretti rinnova e porta a una tensione inedita il linguaggio poetico. Stabilendo un collegamento ideale fra il poeta alessandrino e Giacomo Leopardi, Ossola, in particolare, pone l’attenzione sull’uso che Ungaretti fa dei dimostrativi “questo e quello”. Evidentemente influenzato dal poeta recanatese, Ungaretti non ci restituisce una visione determinata della realtà, bensì piega il linguaggio alla restituzione di un’idea astratta e collocata all’interno di un tempo e di un luogo indeterminati.

“Ungaretti accentuerà, a preferenza dell’apposizione, l’uso della specificazione, del genitivo che lungi dal rendere particolare il generale (es.: “crosta di pane”), compia precisamente il processo opposto: cioè di rendere universale il particolare, di togliere i confini al limitato e renderlo indefinito, svuotando di consistenza gli oggetti metaforizzati e dislocandoli nel puro spazio nominale. […] In generale il processo mira a una dilatazione del dicibile (ndc, amplificazione di ciò che può essere detto), a una smaterializzazione dei dati, a collocare il discorso poetico in una metafora assoluta [. . .] come in “occhio di stelle” , “acquario/ di sonnambula noia” (In galleria), “e mi trasmuto/ in volo di nubi” (Annientamento), “balaustrata di brezza” (Stasera), “terrazza di desolazione” (Lindoro di deserto), “occhio di millunanotte” (Fase), “abbraccio di lumi” (Silenzio), “gocciole di stelle” (Risvegli) [. . .]. Ma al processo di dilatazione nella catena metaforica corrisponde, d’altro lato, l’astrazione cui Ungaretti sottopone ulteriormente il materiale lessicale, per ottenere quel primigenio “inesprimibile nulla”. [. . .] L’astrazione è soprattutto conseguita con i mezzi propri di un vocabolario sorvegliato e selezionato, mirante ad un’allusività che ricordi la “vaghezza” dell’indeterminato in Leopardi. E non è soltanto, a suggerirlo, la ripresa nell’“illimitato silenzio” di Nostalgia dell’“infìnito silenzio” dell’idillio leopardiano L’infinito, dal quale sarà pure da supporre la derivazione [. . .]; ma più in generale la predilezione per il vocabolo vago, e ancor più per la metafora rarefatta, artificio d’assoluto: così è “il limpido/ stupore/ dell’immensità” (Vanità), la stessa “immensità” di Leopardi (“Così tra questa/ Immensità s’annega il pensier mio”, L’infinito). [. . .] Uno dei modi più cospicui e usuali nella strutturazione dei brevissimi periodi e membrature sintattiche dell’Allegriaè dato dalla fitta alternanza (che il poeta più tardi indicherà come costitutiva dell’esperienza del Leopardi, e che dal recanatese sicuramente derivò) dei deittici, e tra questi in particolare dei dimostrativi. […] Osserviamo, ancora una volta, Il porto sepolto, la più emblematica tra le poesie “invariate” (ndc, quelle poesie che non hanno subito modifiche o varianti nel corso del processo compositivo che va da Il porto sepolto a L’Allegria) nel tempo e nella struttura; tutta la seconda e finale strofe è racchiusa nell’indeterminazione assoluta dei due dimostrativi:

Il porto sepolto

Mariano il 29 giugno 1916

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde

Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto

L’“inesauribile segreto” è proprio nell’infinito rinviarsi speculare di “questa poesia” a “quel nulla”, come drammaticamente ritornava su se stesso, infinitamente ripetuto, l’interrogativo leopardiano: “Questo è quel mondo?” (A Silvia)”.

Ungaretti era ben consapevole di aver anticipato e in un certo senso dato la stura a quei nuclei destinati a segnare il Novecento poetico e di essersi imposto sin da subito come voce autentica e inimitabile della poesia europea del secolo breve.

In una lettera al collego e amico Giovanni Papini, della prima metà del febbraio 1919, il poeta rivendica la novità assoluta della “precisione nelle parole e nel ritmo” raggiunta nelle proprie poesie di guerra, contenute nel Porto Sepolto : “ Mio caro Papini, […] ma perché mi hai dimenticato tra quelli che hanno scritto di guerra: sono il solo in Francia e in Italia ad averne dato la poesia; questo merito nessuno me lo leverà; so quel che valgo; bisogna risalire a Vìllon per ritrovare tanta essenzialità, tanta precisione nelle parole e nel ritmo, in questi tempi di oh! e di ah! , di poesia che crede di essere teologica, […] in questi tempi degli aggettivi!”

Un’altra notte

Vallone il 20 aprile 1917

In quest’oscuro
colle mani
gelate
distinguo
il mio viso

Mi vedo
abbandonato nell’infinito

Chiudiamo l’articolo proprio con Commiato, poesia che chiude la sezione Il Porto Sepolto dell’Allegria, dedicata all’amico Ettore Serra, ufficiale conosciuto in trincea che aiutò Ungaretti a pubblicare la plaquette presso una tipografia di Udine. Parlare di Ettore Serra equivale, per Ungaretti, a riflettere sulla propria vocazione poetica.

Commiato

Locvizza il 2 ottobre 1916

Gentile
Ettore Serra
poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento

Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso

 

Fuori dalle aule, nei silenzi dei nostri Carsi personali, al fianco dei nostri fratelli, riflettiamo anche noi.

 

Nazareno Loise

www.nucleokublakhan.it

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