I venerdì del Nucleo Kubla Khan – Solo per te la mia canzone vola. Poesie alla Madre

… maledetta sia mia madre: è morta!
(Carmelo Bene)

“Donna, se’ tanto grande e tanto vali,/ che qual vuol grazia e a te non ricorre/ sua disianza vuol volar sanz’ali”. Così San Bernardo, nel XXXIII canto del Paradiso, si rivolge alla Vergine affinché interceda presso l’Altissimo e sia concesso a Dante il privilegio di addentrarsi nei misteri dell’universo, pur essendo ancora in possesso delle spoglie mortali

Ma ne “L’invocazione alla Vergine” non è solo il santo di Chiaravalle a parlare. Si mescolano distinamente in essa tutte le voci degli epigoni danteschi che, durante la stesura delle poesie tributate alle proprie madri nei secoli successivi, sembrano essere stati pervasi, come ombra d’Angelo, dagli endecasillabi del Sommo.

Già prima di Dante e della letteratura cristiana, però, troviamo esempi di dialoghi lirici fra madri e figli e di invocazioni di questi ultimi nei confronti delle genitrici. Un esempio valido per tutti è quello di Ulisse. L’eroe dal multiforme ingegno, disceso come Dante nel Regno dei Morti da vivo, dialoga con la madre Anticlea, morta per il dolore della lunga assenza del figlio (o suicidatasi per la falsa notizia della sua morte). E qui a lei si rivolge: “Madre, perché non resti, se io mi struggo/ di abbracciarti, così che entrambi al collo/ gettandoci le braccia, anche nell’Ade,/ gustiamo l’acre voluttà del pianto?” (Odissea, XI, 267-270).

In tantissimi, e senza tradire la bellezza degli archetipi, hanno scritto alle proprie madri con addolorata sincerità e non v’è dubbio che, nel farlo, abbiano toccato gli apogei del lirismo più empatico.

In forma di lettere, di suppliche, di elogi funebri, nei modi più vari i poeti hanno elaborato e riformulato quello che può essere considerato un tòpos della letteratura d’ogni tempo.

Per mere ragioni di spazio, si sono scelti in queste sede soltanto cinque esempi, diversi fra loro, eppur mossi dallo stesso spirito implorante e debitore.

Sergej Esenin e Salvatore Quasimodo, coetanei ma separati da un’ultra chilometrica burella natural-poetica, hanno scelto di rivolgersi alle rispettive madri utilizzando lo stesso espediente: quello della lettera. Oltre al “mezzo”, però, anche il “fine” li accomuna. Entrambi i poeti sono stati costretti dalla loro squattrinata vocazione a emigrare e ad abbandonare le madri nei loro luoghi d’infanzia. Le lettere divengono spunto per una meditazione del poeta su di sé, sulla propria condizione di esule (e qui, come circumnavigando le Colonne d’Ercole, ritornano raminghi Ulisse e Dante) sulle inquietudini di un presente poco appagante e sul ricordo di un’infanzia rivissuta nostalgicamente.

Lettera alla madre di Sergej Esenin

Sei ancor viva, vecchiarella mia?
Anch’io son vivo. Salve a te, salve!
Fluisca ancora sulla tua casetta
quella indicibile luce serale.

Mi scrivono che tu, celando l’angoscia,
troppo ti rattristi per me,
che spesso t’affacci sulla strada
nella tua vecchia giubba fuori moda.

E che nel buio azzurro della sera
ti si presenta spesso una visione:
vedi qualcuno in una rissa di bettola
cacciarmi in cuore un coltello finnico.

Ma non è nulla, cara! Sta’ tranquilla.
É soltanto un penoso delirio.
Non sono ancora un ubriacone ancora sì incallito
da morire senza rivederti.

Ti voglio bene ancora come un tempo
e il mio sogno è solo di tornare,
vinta la mia indomita tristezza,
in quella nostra misera casetta.

Tornerò quando il bianco giardino
aprirà i suoi rami a primavera.
Solo tu non mi svegliare all’alba
come facevi otto anni fa.

Non ridestare un sogno svanito,
non turbare ciò che non s’è avverato;
troppo precoci perdite e stanchezza
m’è toccato provare nella vita.

E non insegnarmi a pregare.
Non occorre! Non si può ritornare al passato.
Sei tu sola il mio aiuto e il mio conforto,
tu sola la mia luce ineffabile.

Dimentica dunque la tua angoscia.
Non rattristarti troppo per me.
Non andare così spesso sulla strada
nella tua vecchia giubba fuori moda.

(Traduzione di Eridiano Bazzarelli, Sergej A. Esenin, Poesie e poemetti, BUR, 2000)

 

Lettera alla madre di Salvatore Quasimodo

Mater dulcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi,
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d’amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo.” – Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore,
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. –
“Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance
alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d’eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell’ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso mi ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro,
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dulcissima mater.”

(La vita non è sogno, 1949, inserita in Tutte le poesie, Mondadori, Oscar Grandi Classici, 1994)

Di tinte trasgressive, come fu tutta la vita dell’autore, e pervasa da un tono auto-accusatorio, è la supplica dedicata da Pier Paolo Pasolini alla madre Susanna, la quale emigrò assieme al figlio dal Veneto nella Capitale e che sempre gli stette vicino fino a quella tragica notte sulla spiaggia di Ostia.

Noto è il rapporto viscerale che intercorreva fra i due e che portò PPP a fare della madre una figura cardine nella propria vita e nella propria opera. A riprova del fatto che l’arte sia un infinito labirinto già scritto e che sia sempre lo stesso “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, Pasolini fece interpretare alla madre il ruolo di Maria ne Il Vangelo secondo Matteo, film che diresse nel 1964. Scrive Enzo Siciliano in Vita di Pasolini (Oscar Mondadori): “Questa scelta fu un gesto dichiarativo d’amore per lei, ma segna anche l’esplicarsi di un cristianesimo arcaico, quasi inattingibile dalla ragione: interpretare la figura di Maria di Nazareth come madre ‘unica’, identificabile soltanto nella propria madre.”

 

Supplica a mia madre di Pier Paolo Pasolini

È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

(Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano 1964)

Se Pasolini chiedeva a Susanna di “sopravvivere” e di “non voler morire”, Allen Ginsberg dedicò un intero poema alla morte della madre Naomi. Il poeta statunitense intitola l’opera Kaddish, termine che si riferisce a una preghiera fondamentale nel servizio liturgico giudaico, spesso usata nelle commemorazioni e nei memoriali funebri. Naomi Ginsberg visse gran parte della sua vita in un ospedale psichiatrico, affetta da una malattia psicologica mai diagnosticata con esattezza. Pare fosse convinta di avere dei fili nella testa e tre bastoni conficcati nella schiena, e che tutti fossero spie di Hitler, anche i suoi figli e suo marito. Fu Allen stesso, all’età di 12 anni, ad accompagnarla in manicomio. La lunga malattia della madre e la sua morte cambieranno per sempre la vita del poeta beat, trascorsa nel continuo e straziante senso di colpa per averla relegata in un manicomio. Ginsberg impiegò due anni per scrivere il poema, caratterizzato da un’intimità straziante e uterina e considerato, da molti ciritici, la sua più alta espressione poetica. Qui, ve ne offiamo soltanto un estratto.

 

IV. Da Kaddish di Allen Ginsberg

O madre

quello che ho tralasciato

O madre

quel che ho dimenticato

O madre

addio

con una lunga scarpa nera

addio

col Partito Comunista e una calza smagliata

addio

con sei peli neri sulla cisti del suo

addio

con il tuo vecchio vestito e una barbaccia nera intorno alla vagina

addio

con la tua pancia gonfia

con la tua paura di Hitler

con la tua bocca di brutti racconti

con le tue dita di mandolini rotti

con le tue braccia di grasse verande Paterson

con la tua pancia di scioperi e fumaioli

con il tuo mento di Trotskiy e Guerra Ispanoamericana

con la tua voce che cantava a stremati stramazzati operai

con il tuo naso male collocato col tuo naso odor di salamoia di Newark

con i tuoi occhi

con i tuoi occhi di Russia

con i tuoi occhi senza quattrini

con i tuoi occhi di falsa porcellana

con i tuoi occhi di Zia Elanor

con i tuoi occhi di India affamata

con i tuoi occhi che pisciano nel parco

con i tuoi occhi d’America che cadono

con i tuoi occhi di pianista fallita

con i tuoi occhi dei parenti in California

con i tuoi occhi di Ma Rainey morente in ambulanza

con i tuoi occhi di Cecoslovacchia attaccata dai robot

con i tuoi occhi a lezione di pittura la sera nel Bronx

con i tuo occhi di Nonna letale che vedi all’orizzonte dall’Uscita Antincendio

con i tuoi occhi che corri nuda fuori di casa urlando sul ballatoio

con i tuoi occhi sequestrata dai poliziotti in ambulanza

con i tuoi occhi legata sul tavolo operatorio

con i tuoi occhi con il pancreas asportato

con i tuoi occhi di operazione d’appendicectomia

con i tuoi occhi di aborto

con i tuoi occhi di ovaie asportate

con i tuoi occhi di trauma

         con i tuoi occhi di lobotomia

         con i tuoi occhi di divorzio

         con i tuoi occhi di ictus

         con i tuoi occhi soli

         con i tuoi occhi

         con i tuoi occhi

         con la tua Morte piena di Fiori

(da Kaddish and Other Poems 1958–1960 by Allen Ginsberg, Traduzione di Massimo Bocchiola, I Miti di Poesia, Mondadori, Milano, 1997)

L’ultima poesia condensa le tematiche delle prime quattro e celebra il limbo lirico in cui sono relegate. Giuseppe Ungaretti fa salmodiare ritmicamente i suoi versi fra la vita terrena e l’aldilà, innalzando come una croce la sua certezza di ricongiungersi alla madre, da poco morta, nella vita ultraterrena. Come in Quasimodo e in Esenin, il sentimento dominante è il rimpianto per la perduta felicità dell’infanzia, che Ungaretti spera di recuperare quando tornerà a incontrare sua madre, prefigurandosi un abbraccio che ricorda quello tra Ulisse e Anticlea.

 

La madre di Giuseppe Ungaretti

E il cuore quando d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d’ombra,
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
Come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’Eterno,
Come già ti vedeva
Quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
Come quando spirasti
Dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,
Ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,
E avrai negli occhi un rapido sospiro.

(Sentimento del tempo, 1930, inserita in Vita d’un uomo, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1986)

La Poesia ora sguazza, ora galleggia, ora affonda nel liquido amniotico di una maternità che è al tempo stesso ispirazione e castrazione della vita stessa dei poeti. I versi singultano all’interno del cordone ombelicale, crescono gli embrioni estirpati dalle panche gonfie e da adulti bramano di ritornarvi, col favore di Dio e immersi nella pace della morte.

 

Nazareno Loise

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.