Il viaggio di Fortunato – il nuovo romanzo di Luigi De Bartolo

Dopo il fortunato esordio con “Prossima fermata Machado” (Edizioni Efesto, 2019), torna in libreria con un nuovo libro Luigi De Bartolo. “Il viaggio di Fortunato”, sempre per i tipi di Efesto, viene così presentato dall’editore: “Il sogno di Fortunato è vivere su un’isola, perché un’isola è un rifugio di bellezza, sta tutta in uno sguardo e il mondo non ci entra. Così un giorno manda tutto a monte e parte per un viaggio che attraversa l’Italia a ritroso, da Nord verso Sud, la sua terra, dove è nato e cresciuto. Il suo è un viaggio disperato, il viaggio di un uomo che non sa come cavarsela. Ma è anche un viaggio gioioso, passionale, alla riscoperta di quello che aveva dimenticato, di tutto quello che credeva di aver perso.”

Biblon vi presenta in anteprima il primo capitolo del libro.

Ringraziamo l’autore e l’editore per la concessione.

***

Capitolo 1. Il sogno

Mi sveglio con la faccia bagnata. Il cuscino è fradicio come uno straccio, ma non sono sudato, solo gli occhi sono umidi, devo aver pianto per ore.
Cerco confronto dall’altra parte del letto, ma c’è solo una donna che lotta con i suoi incubi, che respira nervosa, saranno le 4 e mezza Michela, dormi almeno tu.
La stanza è buia, allungo la mano verso il cellulare sul comodino, mi avvisa che la sveglia sta per suonare anche se manca più di un’ora, è come un “ricordati che devi morire”.
Odio la sveglia, è lo strumento di tortura della modernità, niente ti prosciuga poco a poco come il momento alla sera in cui decidi di frazionare il tuo riposo e giochi da ragioniere con le energie. Qualche tempo fa ho messo “Altrove” di Morgan come suoneria della sveglia, era la mia canzone preferita, ora la odio.
Tiro via le coperte e barcollo con lo stomaco sottosopra, almeno mi fossi ubriacato ieri sera, ho tutti i postumi della sbronza senza avere avuto l’avventura.
Come un automa vado in cucina e prendo una pillola. Io, che fino ai trenta anni non prendevo neanche un’aspirina, eccomi con mani esperte che riempio un bicchiere d’acqua con una mano, mentre con l’altra apro le imposte verso i palazzi di fronte.
Mi fanno compagnia da venti anni, da quando faccio l’impiegato nella periferia di Milano, i primi venticinque invece li ho trascorsi in Calabria, ormai sono diviso a metà, né carne, né pesce. Guardo oltre il vetro e penso che però ci sono stagioni peggiori. A fine maggio, con le giornate lunghe, a Milano si sta bene.
È nelle mattine d’inverno, sul treno che qui chiamano passante, che ho toccato la mia personale miseria umana.
Le ricordo mentre vedo il cielo cambiare colore, stipato nella folla, con odore di smog e di piriti nelle narici, tra gente che guarda storto e altri che mandano messaggini.
Oggi sarebbe lo stesso se non ci fosse il sole, deve essere dentro quei treni che sono passato da zero aspirine a due pillole al giorno.
Mi allontano dalla finestra e prendo una sedia, subito dopo il risveglio mi viene sempre un rigurgito di sonnolenza, poggio la testa sul tavolo e osservo con gli occhi socchiusi le prime luci dell’alba.

Avanzo nel sole a piedi nudi su una sabbia rossa che non brucia. Per un attimo non so dove mi trovo, ma poi i riferimenti si fanno chiari.
Ho sedici anni, è agosto e coi miei siamo andati in vacanza a Favignana.
I ricordi sono sempre parziali, a distanza di anni non riaffiora il mare, l’acqua trasparente che ero andato a toccare per essere sicuro di non trovarmi dentro il catalogo di un’agenzia di viaggio, non la sabbia finissima, né le rocce selvagge, bensì mio padre con le spalle rosse su cui si vede il segno dello zaino che porta dalla mattina.
Poi papà scompare e resto da solo, cammino, la bellezza del paradiso è la sua banalità.
È sempre uguale il panorama, mare, sabbia, rocce, ma la mente non si stanca mai di guardare, potrei starci ore.
Non è che non esista il dolore, ma c’è qualcosa di atavico, un’energia che dà conforto in certi paesaggi.
Nel villaggio in cui si trova il nostro appartamento c’è una piscina. Ci arrivo di colpo, direttamente dalla spiaggia, senza oltrepassare ingressi o cancelli.
C’è una mia coetanea con un costume nero, mi metto subito a parlarci, è spigliata e socievole, ha i capelli scuri, ci mangiamo con gli occhi. Mi godo l’attimo, è così evidente che qualcosa accadrà che non c’è fretta.
Dove andremo, la piscina è tutta per noi, il paradiso pure, ma avremo bisogno di appartarci quando finiremo di parlare.

Poi d’un tratto una voce lontana si fa sempre più prepotente, fino a rimbombarmi nelle orecchie.
“Però, che cosa vuol dire però? Mi sveglio col piede sinistro, quello giusto…”
È la sveglia. È l’ultima goccia.

Luigi De Bartolo nasce a Cosenza nel 1984, si laurea in Ingegneria nel 2010 e in seguito insegna Elettronica in provincia di Milano. Nell’aprile 2019 pubblica il suo primo romanzo, Prossima fermata Machado (Edizioni Efesto). Nella primavera 2020, quando il mondo si ferma, lui guarda il cielo nebbioso di Rho attraverso una finestra sul tetto e viaggia per l’Italia assieme a Fortunato.

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