Sartre e l’assurdità del suicidio

Il suicidio è un’assurdità che fa sprofondare la mia vita nell’assurdo

 

Leggere Jean-Paul Sartre è sentire la terra spaccarsi sotto i propri piedi. Sartre rimette in dubbio, rimette in questione, continuamente, smonta e rimonta i pezzi in maniera diversa, ci lascia spiazzati e in preda alle vertigini. In Sartre non c’è nessun principio, nessun “a priori”, niente che ci trascenda: ogni nostra azione è soltanto una nostra scelta. Una scelta non razionale, ovviamente, ma preriflessiva e prodotta da un cogito anch’esso preriflessivo.

Abbiamo, dunque, piena libertà di scelta, in ogni campo. La vita ci mette davanti un’infinita serie di possibilità.

Come si inserisce quindi la Morte nel pensiero di Sartre? La morte è l’annullamento di ogni possibilità, la fine della coscienza e la fine di tutto. Il suicidio stesso è una scelta, e Sartre non fa la morale: non ci sono azioni giuste o azioni sbagliate, ci sono semplicemente delle azioni. Eppure è chiaro che suicidarsi significa negarsi, perdere la propria soggettività, cadere nelle mani degli altri e non potersi difendere, non poter replicare.

Se ogni accadimento della nostra vita assume un senso solo “a posteriori”, se solo noi possiamo dare un senso a quello che ci accade dopo che esso è accaduto, come è possibile dare un senso alla morte, dal momento che non esistiamo più?

[…] la morte non è mai quello che da il suo senso alla vita; è invece ciò che le toglie ogni significato”.

La morte è assurda e priva di senso, e il suicidio non è una soluzione né un atto eroico.

Una vita considerata nella prospettiva di una morte finale è per Sartre contraddittoria come un cerchio quadrato. Se è possibile individuare una struttura formale del fenomeno della morte, il punto di partenza deve essere proprio l’analisi dell’atto del suicidio; il suicidio è la nostra volontaria scelta di porre fine alla nostra vita, ma la morte che ne consegue non è interamente nostra, è anche di chi resta.

Il suicidio non può essere considerato come una fine per la vita di cui sarei il fondamento. Essendo atto della mia vita, richiede anch’esso un significato che solo l’avvenire gli può dare; ma siccome è l’ultimo atto della mia vita, esso si priva di questo avvenire: così resta completamente indeterminato”.

L’uomo è nell’impossibilità di non scegliere, e il suicidio si presenta come la scelta di non essere più. Sceglierlo sembrerebbe voler dire scegliere di sfuggire all’essere fittizio in cui ci sentiamo imprigionati, e che sembra compiere le scelte al posto nostro. Ci sembra un’affermazione della nostra libertà di scelta. Ma a ben guardare questo gesto, essendo scelta e progetto esattamente come tutti gli altri, ritorniamo al punto di partenza.

È l’uomo a creare il senso della situazione in cui si trova, e può controllarla. Così, anche la più terribile delle situazioni, può essere abbandonata: l’uomo possiede tutti i mezzi per sottrarsi a qualsiasi situazione concreta, e il suicidio è uno di essi.

Così Sartre annovera tra i mezzi a disposizione dell’uomo per cambiare il senso della sua vita proprio il suicidio.

Ma il paradosso del suicidio è che sottraendosi a una situazione concreta con la scelta volontaria della morte, l’uomo ne costruisce un’altra di cui è ancora una volta lui stesso responsabile; dietro ad ogni atto libero e spontaneo risiede la responsabilità totale e personale dell’azione, sempre.

Il suicidio è una scelta ontologica quindi, perché come abbiamo detto, sottrarsi a una situazione vuol dire costruirne un’altra; il suicida è come un disertore di guerra.

“Il suicidio è un modo come gli altri di essere al mondo.”

L’uomo è sempre interamente responsabile; porta il peso della responsabilità della sua vita sulle sue spalle, e da questo non potrà mai sottrarsi, neanche suicidandosi.

Così il gesto del suicidio si rivela sempre, ineluttabilmente, come una scelta libera, e possiede le caratteristiche ontologiche di ogni libera azione umana: l’assurdità, prima di tutto, e la responsabilità.

 

Elena Ramella

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